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Zone rosse, troppe ombre sul governo: la settimana di follia a Palazzo Chigi

Riccardo Mazzoni
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Le ultime esternazioni di Conte e del ministro Speranza non hanno affatto diradato le ombre sui giorni più acuti dell’emergenza Covid in cui il governo prima non chiuse la Bergamasca e poi mise il lucchetto all’Italia. Conte – e che altro poteva dire? – ha assicurato di non aver mentito ai pm di Bergamo e che non ha nulla da nascondere. Anche Speranza ha rivendicato la scelta del lockdown nazionale, che avrebbe “salvato l’Italia e consentito di fermare il virus prima che invadesse il Sud, risparmiando così tante vite”.

Nessuno potrà mai dimostrare il contrario, mentre qualche dubbio motivato esiste sulle vite che si sarebbero potute salvare blindando tempestivamente i focolai di Alzano e Nembro con l’istituzione della zona rossa, e invece allo scopo fu mobilitato l’Esercito senza però attivarlo. Ma il punto in questo momento è un altro: se non c’erano segreti, come giura il premier, perché il governo tenne all’oscuro il Parlamento, e quindi il Paese intero, della difformità di vedute col comitato tecnico scientifico? E perché poi lo stesso Conte ha ripetutamente sostenuto il contrario? Si potevano ugualmente salvare vite senza provocare danni irreparabili all’economia del centro-sud? E perché ancora non sono stati desecretati tutti gli atti? Domande scomode di fronte a cui Conte e Speranza dovranno fornire risposte esaurienti sia alle Camere che alla magistratura.

C’è una verità politica, però, che non aspetta chiarimenti, perché è già scritta nell’albo di errori compiuti dal governo dal giorno in cui fu proclamato lo stato d’emergenza nazionale. Gli italiani li hanno vissuti sulla loro pelle, e non importa dunque rielencarli tutti. Ma c’è un punto dirimente su cui merita tornare: quello sul ritardo nel decidere la zona rossa ad Alzano e Nembro, suggerita dal Cts, sulla quale sia Conte che Speranza hanno negato di aver perso tempo. Vediamo: il premier sulla zona rossa ha fornito versioni molto diverse, prima sostenendo di essere stato informato già il 3 marzo delle indicazioni del Cts, poi alimentando invece il giallo della scomparsa del documento a Palazzo Chigi, e infine sostenendo che, come prevede la prassi, gli era arrivato sul tavolo il 5 marzo, giorno in cui sarebbe pervenuto al segretario generale della presidenza del consiglio. Speranza non è stato da meno: ha detto in un’intervista che il verbale del Cts gli arrivò il 4 marzo, che il 5 marzo avvertì Conte e insieme chiesero un approfondimento al professor Brusaferro, che il 6 marzo maturò “il cambio di linea” concordato col Cts, fino al Dpcm dell’8 marzo con cui si chiusero solo le aree più colpite dall’epidemia. Ma questa ricostruzione è in realtà un’autoaccusa, visto che dopo l’allarme rosso lanciato dal Cts il 3 marzo, e mentre l’epidemia stava dilagando e mietendo sempre più vittime nel nors Italia, il governo perse ben cinque giorni per giungere alla decisione di chiudere tutta la Lombardia e altre undici province di Piemonte, Veneto ed Emilia Romagna, poi salite a 14.

E qui arriviamo all’altra grande incongruenza: Conte, per giustificare il lockdown nazionale varato in dissonanza col comitato tecnico-scientifico, ha sostenuto che “il rapidissimo moltiplicarsi dei contagi e l’esodo da nord a sud obbligò il governo prima a chiudere la Lombardia, e poi tutto il Paese”. Peccato che l’esodo verso il sud fosse stato provocato proprio dalla irresponsabile fuga di notizie sulla chiusura di fatto dei confini del nord, che diffuse il panico e provocò l’assalto di una folla impaurita a treni e autobus, oltre che la fuga di massa in auto per raggiungere il centro-sud, come se ci fosse stata una nuova linea gotica da varcare per mettersi in salvo. Fu proprio il governo, insomma, con la sua comunicazione dissennata, a mettere potenzialmente in pericolo il sud risparmiato dal virus. Poi, farsa nella tragedia, Palazzo Chigi cercò di scaricare le responsabilità del caos sui media, arrivando a parlare di “disinformazione di massa” negando di aver vietato le uscite e gli ingressi dalla Lombardia. Eppure il Dpcm firmato quella notte da Conte all’articolo 4 prevedeva proprio quello, affidandone l’esecuzione al “prefetto territorialmente competente”, che poteva avvalersi “delle forze di polizia, del corpo nazionale dei vigili del fuoco nonché delle forze armate”.

Neanche 24 ore dopo, Conte poi firmò il Dpcm che dispose la prima chiusura di tutto il territorio nazionale fino al 3 aprile. Ora sembra spuntare un verbale - ancora secretato - con cui il 10 marzo il Cts avrebbe definito la decisione del governo “coerente con il quadro epidemiologico configuratosi”. Una validazione scientifica ex post, dunque, arrivata una settimana dopo le diverse indicazioni del 3 marzo, che non servirebbe però a modificare il giudizio su quella settimana di follia del governo, che si mosse in una situazione oggettivamente del tutto nuova e terribile, ma che accumulò una serie incredibile di errori di cui ora dovrà inevitabilmente rispondere. La frenesia dei pieni poteri si è dimostrata infatti incompatibile con una gestione ordinata e assennata della crisi, come hanno dimostrato il caos delle mascherine, gli ordini e contrordini sulla lista delle attività produttive da chiudere e il fallimento dell’App Immuni, che doveva diventare la sentinella anti-Covid nella fase 3 ed è stata scaricata solo da 4 milioni e mezzo di italiani. Ma se i contagi cominciano a risalire, perché nessuno ne parla più?

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