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Per la quarta volta un governo del Pd non votato alle urne

Riccardo Mazzoni
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Se nascerà il governo rossogiallo, sarà la quarta volta in 6 anni che il Pd va al governo senza aver vinto le elezioni. Specialista in scorciatoie giudiziarie per far cadere i governi Berlusconi, il maggior partito della sinistra - nonostante le divisioni interne - ha collezionato 3 premier, presidiato Palazzo Chigi e ministeri chiave e ora si accinge a una nuova occupazione del potere insieme ai nemici del M5s. Questa volta con la pistola politica di Renzi puntata alla tempia di Zingaretti. In una democrazia parlamentare si tratta di manovre del tutto legittime, per carità, purché non si abbia l'impudicizia di ammantarle con la scusa dell'interesse nazionale, visto che il Paese reale, quello che ancora si prende la briga di andare alle urne, ha dimostrato ripetutamente - e in maniera schiacciante - di non volere la sinistra al governo. E pensare che questa stagione anomala di trasformismo malamente occultato dietro le formule nuoviste, di contratti di governo che prendono il posto delle vecchie coalizioni politiche, oltre che di sconcertante disinvoltura nel cambiare maggioranze come fossero magliette, era iniziata nel segno del cambiamento: contratto del cambiamento, governo del cambiamento, legislatura del cambiamento, eccetera. Ebbene, il risultato di questa strabiliante svolta a trazione grillina ha in realtà prodotto non un reale cambiamento, ma un palese arretramento non solo della qualità della politica, ma anche dei suoi usi, costumi e riti, che sono parte sostanziale della democrazia. Per più di 20 anni siamo stati infatti abituati al bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra, una scelta di campo semplificata dell'offerta politica. L'anno scorso invece, col una legge elettorale per due terzi proporzionale – studiata maldestramente per arginare i grillini - le alternative sulla scheda erano molte di più, perché il maggioritario aggrega le proposte, mentre il proporzionale le moltiplica, insieme alle risposte. Per cui il tripolarismo ha riportato l'orologio della politica indietro di diversi lustri: dal capo del governo nominato ipso facto la sera delle elezioni, con le consultazioni al Quirinale divenute un passaggio solo formale, si è tornati agli estenuanti riti della prima repubblica e alla formazione del governo determinata da un negoziato politico in Parlamento e dalla capacità di coalizzare una maggioranza intorno a un nome, a una formula e a un contratto che ha preso il posto del programma. A fronte di una novità – il contratto - che si è dimostrata assai deleteria per la stabilità del governo, insomma invece del cambiamento è stata innestata l'indietro tutta. E se l'istinto di sopravvivenza consentirà la nascita di un nuovo governo - di qualunque colore esso sia – e andrà quindi in porto il taglio di 345 parlamentari posto come prima e irrinunciabile condizione dai Cinque Stelle, il passo indietro diventerà ancora più rilevante, visto che il passo successivo sarebbe il ritorno in piena regola alla legge proporzionale della prima repubblica. Un passo in parte obbligato, perché l'ampiezza dei collegi che andrebbero ridisegnati alzerebbe di fatto le soglie di sbarramento a livelli tali da pregiudicare la rappresentanza parlamentare dei partiti medio-piccoli. E in parte fortemente voluta per impedire a Salvini di prendere i pieni poteri facendo incetta di collegi del Rosatellum. Anche se in Italia i pieni poteri ce li ha solo la magistratura, e non c'è vittoria elettorale, anche se bulgara, che li possa garantire (per informazioni chiedere a Berlusconi). Se torneremo al proporzionale, l'Italia si addentrerà in un terreno inesplorato, perché non esistono più le divisioni ideologiche, che erano anche certezze politiche, ma soprattutto i partiti radicati della prima repubblica, e quindi si andrà ad alleanze strette solo dopo le elezioni, a lunghi negoziati in Parlamento e a un'ingovernabilità che rischia di essere assurta a sistema. Indietro tutta, o forse peggio.

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