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Zingaretti sola speranza per il voto

Il segretario del Pd alza la posta perché non vuole il matrimonio con il M5s, ma ha contro renziani e capi storici. Grillini disposti a sacrificare Conte e altri. Si moltiplicano i poltronisti

Franco Bechis
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Mettetevi nei panni di Nicola Zingaretti, il re senza regno. Il suo partito - il Pd - lo ha eletto segretario grazie a un accordo fra alcuni dei capi corrente subito dopo le elezioni del 2018. Solo che pur avendola persa rovinosamente quella campagna elettorale l'aveva condotta Matteo Renzi. Così oggi alla Camera o al Senato i gruppi parlamentari sono composti da quelli che il fiorentino aveva messo in lista nei posti migliori. Gran parte erano suoi fedeli, altri comunque sono lì grazie a lui. I fedelissimi dell'attuale segretario si contano sulle punta delle dita, e non hanno incarichi istituzionali rilevanti. Cosicché in un momento politicamente rilevantissimo come l'implosione del governo degli avversari politici di Lega e M5s il povero Zingaretti non aveva nemmeno un suo uomo o donna in grado di prendere la parola nell'aula parlamentare e dare la linea. Con prova muscolare dei 40 minuti concessi al gruppo Pd nel dibattito sulle dimissioni di Giuseppe Conte, la metà se li è presi Matteo Renzi, sulla carta semplice senatore fiorentino, in pratica leader della minoranza Pd anche se il partito non lo frequenta quasi più avendo in testa di farne un altro. Altri dieci minuti se li è presi il capogruppo dei senatori, Andrea Marcucci, fedelissimo renziano. Insomma, nel cuore dei palazzi chiave il povero Zingaretti conta oggi come il due di picche. Ovvio che l'ultimo dei suoi desideri oggi sia fare da stampella a un nuovo governo Pd- M5s stelle dove il mattatore sarebbe solo Renzi, che è padrone dei gruppi parlamentari. E' stato l'ex premier fiorentino infatti a dettargli l'apertura ai grillini, se le trattative dovessero quagliare, il povero Zingaretti diverrebbe un ostaggio nelle mani del leader della minoranza del suo partito, che dopo essersi intestato la nascita del nuovo governo in qualsiasi momento potrebbe deciderne la caduta senza manco consultarsi con il segretario del Pd. Allora mettiamoci nei panni di Zinga: al suo posto punteremmo diritti alle elezioni, dove certo il Pd non trionferebbe, ma difficilmente farebbe peggio che nel 2018. Continuerebbe a fare opposizione come oggi, ma in parlamento la guida dei gruppi sarebbe in linea con la segreteria del partito, e il Pd non sarebbe più quel Vietnam che oggi è. Non c'è bisogno di suggerirlo: di tutto questo sono convinti sia l'attuale segretario che il gruppo dirigente che lo affianca. Ma alcune eminenze grigie che lo affiancano no: da Massimo D'Alema a Romano Prodi a Goffredo Bettini fino a scendere giù per Dario Franceschini (che conta assai meno di un tempo), tutti lo spingono a benedire il matrimonio con il M5s, nella speranza che si possa arrivare a braccetto fino all'elezione del prossimo presidente della Repubblica nel 2022, chiudendo ogni futuro politico a Matteo Salvini. Con i gruppi contro di lui e i vecchi del partito che lo hanno aiutato nella elezione, Zingaretti non ha quasi spazio di manovra. Così ieri nella direzione ha fatto la sola cosa che poteva: non ha bocciato il tentativo di governo come in cuore suo avrebbe fatto, provando però ad alzare di molto la posta. Ne è nato quel documento con 5 condizioni per il nuovo esecutivo di cui riferiamo all'interno del giornale, che nella sostanza chiedono ai grillini totale discontinuità con il governo attuale, a cominciare ovviamente dal premier Giuseppe Conte e molti ministri, e discontinuità pure con molti dei provvedimenti approvati, alcuni di stampo leghista (decreti sicurezza), ma altri di stampo grillino (il decreto dignità ad esempio). Sulla carta condizioni inaccettabili dal M5s. Ma in queste ore ci si beve davvero di tutto. Quel gruppo non è meno diviso del Pd, come emerso dall'assemblea dell'altra sera alla Camera: c'è chi vuole un regolamento di conti con Luigi Di Maio, chi vorrebbe provare a riannodare con la Lega (ieri il sottosegretario leghista Claudio Durigon aveva il telefonino pieno di messaggi degli ex alleati, e telefonate e dall'altra parte telefonate e colloqui di persona si sono centrati sul sottosegretario grillino Stefano Buffagni), chi che il matrimonio con il Pd sia la soluzione a tutti i guai, e chi strepita dicendo “mai!”. Ma i vertici del gruppo sono pronti a bersi qualsiasi cicuta pur di non darla vinta a Salvini. Ci sono già stati incontri con esponenti (renziani) del Pd, e già sono pronti a sacrificare sia Conte che gran parte dei ministri tracciando la linea del Piave solo su tre esponenti dell'attuale governo: Di Maio, Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro. Sull'altro fronte già ci si gioca ai dadi le poltrone: un gruppo di parlamentari ne discuteva animatamente a Fiumicino l'altro ieri proprio mentre passava in quel momento un attonito Buffagni. Il povero Zingaretti in queste condizioni non riuscirà a resistere più di tanto, e anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella faticherà a tenere ferma la costruzione di un governo serio e duraturo, con programma dettagliato: nelle consultazioni sono emersi già chiaramente gli eserciti dei responsabili di ogni gruppuscolo disposti a votare la qualunque pur di non dire addio alla comoda poltrona. Alla fine quindi il Capo dello Stato tirando le somme conterà una maggioranza assoluta di contrari al voto, e solo se nell'incontro con lui Zingaretti con uno scatto di orgoglio gli farà capire chiaramente di non volerne fare parte, ci sarà ancora uno spiraglio per le elezioni. Altrimenti dovremmo rassegnarci tutti all'orrendo matrimonio fra chi gli elettori hanno preso a pedate nel 2018 e chi quei calci li ha sentiti durissimi nel fondo schiena nel 2019. Sarà il governo degli sconfitti alle urne.

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