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È finita un'epoca. E siamo in Terra di nessuno

Denis Verdini
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A dispetto dei riti tartufeschi, dei colpi di mano, degli agguati parlamentari e delle vittime lasciate sul campo, che hanno ricordato i canovacci della prima repubblica, l'elezione dei presidenti di Camera e Senato della XVIII legislatura ha in realtà segnato un discrimine netto della politica col suo passato lontano e recente: siamo decisamente entrati, infatti, in un mondo nuovo e inesplorato, in una Terra di nessuno e senza bussole certe, dentro una navigazione a vista nel mare in tempesta della democrazia dove comandano i venti impetuosi della novità. Basta dare un'occhiata ai due emicicli del Parlamento, le aule sorde e grigie di mussoliniana memoria e quelle prevedibili della prima e della seconda repubblica ora dominate dalle maree del grillismo crescente e del leghismo lepenista. Una trasposizione plastica del Paese reale, con la sua rabbia sociale e le sue paure, dentro un Palazzo non aperto come una scatoletta di tonno ma comunque cambiato nel profondo. C'erano una volta Pd e Forza Italia, e il bipolarismo di Berlusconi e Prodi declinato in una estenuante guerra di posizione distorta dal convitato di pietra delle Procure; c'era una volta il Patto del Nazareno, che aveva tentato di ridurre a sintesi virtuosa quello scontro durissimo ma giocato sempre negli argini tradizionali della Repubblica parlamentare. Per molti oggi siamo andati molto oltre, e nessuno sa ancora esattamente dove: se nel paradiso effimero della partitocrazia sepolta o nell'inferno di una pericolosa Weimar del nuovo secolo; se nella terza repubblica o nell'anticamera del Terzo Mondo; se nella utopistica decrescita felice del reddito di cittadinanza o nella palude delle altre promesse elettorali temerarie, dalla flat tax alle espulsioni quotidiane di centinaia di clandestini. Non voglio certo drammatizzare l'esito del voto: anzi sono un ottimista inveterato e spero sempre nel meglio in tutte le novità. Deve fare anche riflettere tutti l'entusiasmo che si respira nel Paese di fronte a questo terremoto politico che ha punito i partiti europeisti. D'altro canto gli italiani hanno parlato alto e forte nelle urne di marzo, e il voto degli italiani va sempre rispettato: la democrazia è bella anche se fa male, direbbe il Generale di De Gregori. In questi giorni è successo tanto, ma troppo deve ancora accadere. Salvini ha issato (per un giorno?) la sua bandiera su Palazzo Grazioli, dove gli alleati un tempo andavano solo a prendere ordini, atto molto più che simbolico, e l'opa lanciata contro Forza Italia ha il tratto apparente dell'inerzia inarrestabile, anche se dare Berlusconi per politicamente morto è sempre stato, finora, un errore capitale. Ma dai territori, anche dalle vecchie roccheforti del Sud, si segnalano consistenti movimenti di truppe verso la Lega. Il centrodestra concepito dal genio di Berlusconi con la sua leadership carismatica che riusciva a tenere insieme anche gli opposti è geneticamente mutato, perché le anime sparse che lo componevano si sono dissolte nelle urne, e un'anima vera non c'è più. E non c'è più nemmeno il collante del potere, perché i numeri sono potere e anche i numeri non ci sono più. Restano solo i paradossi, come quello di Forza Italia - guidata dal miglior amico occidentale di Putin - intenta a rassicurare l'Europa dalla deriva putiniana di Salvini. E, a proposito di paradossi, la guida strategica di Salvini è riuscita nel prodigio di far votare ai grillini una presidente del Senato forzista e a Forza Italia un presidente della Camera grillino. Ma questo non deve ingannare: oggi l'ipocrisia dei Palazzi fa dire che la partita delle istituzioni non va confusa con quella del governo, che bisogna separare il grano dal loglio, ma nessuno è nelle condizioni di capire, in questa bolgia politica, cosa sia il grano e cosa il loglio. La verità è che i due vincitori delle elezioni - Di Maio e Salvini - hanno disputato, come il Gatto e la Volpe, una partita speculare per raggiungere il medesimo obiettivo: rendere evidente agli occhi di tutti la marginalità dei protagonisti di una politica che non esiste più, ridotti a comprimari nel nuovo campo di gioco. Il passo di lato di Salvini per lasciare via libera a una berlusconiana al Senato - ma una forzista veneta ben vista dalla Lega - è stata solo la mossa del cavallo per marcare in modo ancora più netto la sua supremazia sul centrodestra e avere poi mani liberissime nelle trattative per il nuovo governo. Che a questo punto, se e quando nascerà, non potrà prescindere né dalla Lega né dai Cinque stelle. Un connubio innaturale? Molto meno di quanto si pensi, perché sui temi cruciali - immigrazione, economia ed Europa - nella passata legislatura hanno votato spesso all'unisono. E comunque l'accordo avrebbe la legittimazione di più del 50 per cento degli elettori. Che potranno diventare due terzi se Salvini riuscirà a trascinare con sé l'intero centrodestra. Vedremo cosa riusciranno a fare dei loro programmi choc, innovativi e apparentemente brillanti tenendo conto dei vincoli imposti dall'Europa. Agli altri che resta da fare allora? Il secondo partito uscito dalle urne, il Pd, si è al momento ritirato in un dignitoso Aventino istituzionale. Non aveva altra scelta: essendo dilaniato al suo interno, se avesse fatto ora e se facesse domani da portatore d'acqua ai governi altrui accelererebbe solo la sua fine politica. Il grande problema nazionale è il nuovo bipolarismo che si sta affermando tra due forze populiste, una tutta arroccata all'estrema destra e l'altra che ha il suo scopo dichiarato - parola del guru Casaleggio - di distruggere la democrazia parlamentare delle mediazioni politiche attraverso la falsa democrazia della rete. La democrazia eterodiretta da una società privata che si arricchisce in modo esponenziale con soldi pubblici, ossia quelli dei suoi parlamentari, dopo aver fatto dell'abolizione del finanziamento ai partiti la propria ragione sociale. L'altra grande e connessa questione, magistralmente indicata da Angelo Panebianco, è la distorsione della democrazia italiana per cui il consenso non si raccoglie più tendendo al centro, ma puntando sulle estreme. Colpa degli elettori? Mai. Mai. Mai. Le colpe di questa deriva vanno ricercate prima di tutto nella crisi indotta dalla globalizzazione, con l'impoverimento dei ceti medi e la contestuale pressione migratoria. Il Pd ha pagato prima di tutto l'onere di stare al governo in questa fase storica complica- tissima, seguendo la sorte di tutte le sinistre europee, e poi l'errore di aver inseguito il grillismo sui temi dell'antipolitica sottovalutando l'impatto negativo dell'immigrazione sul suo elettorato tradizionale. Forza Italia ha fallito in pieno la strategia elettorale, spingendo Berlusconi prima del tempo in una maratona televisiva estenuante e monotona depotenziando così le sue immense capacità di comunicatore. Sceso in campo come argine all'andata populista, ha invece consentito a un partito che ha pre- so meno del 20 per cento di contare come se avesse da solo il 36. Un capolavoro alla rovescia. La logica conseguenza è che ora Berlusconi si trova, archiviato il capitolo delle presidenze istituzionali, di fronte alla scelta fra rompere l'alleanza di centrodestra o seguire Salvini nella costruzione di un governo con Di Maio se vuole evitare il ritorno repentino alle urne. Questo, volenti o nolenti, è lo scenario più prevedibile, salvo miracoli in extremis prodotti dalla saggezza di Mattarella di coinvolgere tutti in un governo istituzionale che appare però sempre più lontano. Avendo le estreme - che non si combattono demonizzandole - di fatto conquistato la politica, ci vorrebbe qualcuno che sapesse rilanciare la sfida del centro. Ma il Nazareno è fallito, e i suoi due contraenti ne stanno pagando entrambi amare conseguenze. Da lì, però, si dovrebbe ripartire per restituire un orizzonte politico a quella parte silenziosa d'Italia che non trova cittadinanza in questo nuovo bipolarismo. Sarà una sfida lunga e improba, ma non impossibile. Servirebbe coraggio, e non so se Berlusconi e Renzi ne avranno ancora. C'è però una certezza della storia: dopo il periodo giacobino arriva sempre un diciotto brumaio.

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