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di Francesco Damato Non è la prima volta, e non sarà neppure l'ultima, per quanto manchino ormai meno di sei mesi alla fine del suo mandato presidenziale, che i partiti e le loro tifoserie strattonano la giacca di Giorgio Napolitano.

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Colpevole,quest'ultimo, di avere forzato l'interpretazione di un'astensione dalla fiducia imprudentemente annunciata dal Pdl alla Camera per dare, con le preannunciate e irrevocabili dimissioni, una «brusca accelerazione» alla fine della legislatura già programmata con un leggero anticipo sulla scadenza ordinaria. Un'accelerazione che gli costerà -sempre al presidente del Consiglio, visto anche il proposito improvvisamente maturato di partecipare alla competizione elettorale- una sostanziale esclusione dalla corsa a Palazzo Chigi. Dove invece, rimanendo il tecnico neutrale o equidistante scelto come tale da Napolitano l'anno scorso prima come senatore a vita e poi come capo di un governo di emergenza, egli avrebbe potuto ben essere confermato in particolari circostanze politiche anche dopo il voto. Invece, «suo malgrado», per ripetere l'inciso pronunciato dallo stesso Napolitano e usarlo contro il presidente quasi dimissionario del Consiglio, il capo dello Stato rimarrà prigioniero del calendario della crisi. Cioè, dovrà rinunciare all'idea di passare la patata bollente nelle mani del successore, con un ritiro dal Quirinale in anticipo di qualche settimana, e gestire lui le procedure costituzionali per la formazione del governo dopo le elezioni e l'insediamento delle nuove Camere. Dovrà insomma affidare lui l'incarico di premier «sulla base del consenso- parole sempre di Napolitano- che gli elettori accorderanno a ciascuna forza politica». Cioè, stando ai sondaggi, al Pd e al suo segretario e candidato a Palazzo Chigi Pier Luigi Bersani. Il quale però nella Sala dei Corazzieri ha fatto gli scongiuri quando il segretario del Pdl Angelino Alfano gli ha più o meno perfidamente tradotto le parole del capo dello Stato pronosticandogli un «pre-incarico». Già in questa scenetta si avverte l'arbitrarietà delle interpretazioni che a sinistra e dintorni si è cercato di dare in funzione anti-Monti e pro-Bersani al percorso istituzionale indicato da Napolitano. Interpretazioni basate sulla previsione, appunto, che sarà la coalizione di cosiddetto centrosinistra guidata dal segretario del Pd a uscire dalle urne con il maggior numero di voti. Ebbene, una cosa sarà per Bersani ottenere l'incarico, o il «pre-incarico», altra cosa sarà riuscire nel tentativo di formare un nuovo governo, cioè ottenere la nomina vera e propria a presidente del Consiglio e, su sua proposta, quella dei ministri, e infine ottenere la fiducia parlamentare, sul piano costituzionale ancora più necessaria dei voti contati e ottenuti nelle urne. È qui che i conti degli strattonatori della giacca di Napolitano rischiano di non tornare più, non tenendo conto della lotteria costituita dai premi regionali di «governabilità» al Senato. E della possibilità quindi, già verificatasi nel 2006, che la maggioranza della Camera non coincida con quella del Senato. Che cosa potrebbe succedere? Con le scarpe grosse e il cervello fine del contadino, una risposta se l'è già data non un montiano ma un antimontiano doc come Antonio Di Pietro vedendo nelle parole e nel percorso tracciato da Napolitano il rischio, secondo lui, che il capo dello Stato voglia e possa «rimettere in sella Monti». Che, dal canto suo, sta dismettendo in questa convulsa fine di legislatura i panni originari del cavaliere tecnico per assumere quelli di un cavaliere politico a tutto tondo, provvisto di un pacchetto di voti popolari e parlamentari decisivo per la formazione di una maggioranza di governo vera, compiuta e, sul piano internazionale, sicuramente più credibile di quella di cui vorrebbe avere le chiavi Vendola.

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