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Le intercettazioni delle telefonate tra Nicola Mancino e Giorgio Napolitano in mano ai pm di Palermo che indagano sulla presunta trattativa Stato-mafia vanno distrutte.

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Ascrivere la parola fine la Corte Costituzionale che ieri, dopo un'udienza pubblica di oltre un'ora e una camera di consiglio di circa 4, ha accolto il ricorso del Quirinale. Per la Consulta i pm non avrebbero dovuto valutare le conversazioni del Capo dello Stato, né omettere di chiederne la distruzione seguendo il percorso tracciato per le intercettazioni vietate. La Corte si è richiamata all'articolo 271 del codice di procedura penale sulle intercettazioni vietate. Secondo il testo il giudice può in ogni grado del processo disporre la distruzione delle registrazioni che coinvolgono soggetti non intercettabili in funzione del loro ruolo: il difensore, il confessore, il medico. A maggior ragione deve valere per il Presidente, ha sostenuto l'Avvocatura dello Stato e confermato la Consulta, aggiungendo che quella strada prevede che «il giudice decida senza contraddittorio» e senza rischio che i contenuti delle conversazioni siano divulgati. Presente al dibattimento anche il procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo, che si è limitato a sottolineare: «È un momento importante». Nessun commento ufficiale nemmeno dal Colle anche se è chiaro che la sentenza soddisfa pienamente le attese di Napolitano. Che ora attende di conoscere le motivazioni (ci vorranno diverse settimane e probabilmente saranno pronte a gennaio). Quella di ieri, spiegano al Quirinale, è stata una giornata di attesa «serena» per il Capo dello Stato, ben più preoccupato dallo stallo sulla riforma della legge elettorale. Dopotutto Napolitano ha sempre considerato «una decisione obbligata» quella di sollevare il conflitto di attribuzioni nei confronti dei pm palermitani anche per confermare la propria «lealtà» nei confronti della Costituzione. Mentre ha sempre bollato come «insinuazioni gratuite» quelle legate alle telefonate tra lui e l'allora vicepresidente del Csm Mancino. «Né io, né D'Ambrosio (il consigliere giuridico del Colle coinvolto nella vicenda e morto d'infarto lo scorso 26 luglio ndr) - aveva ribadito ad ottobre - abbiamo mai interferito cone le indagini della procura di Palermo». Eppure quelle quattro telefonate erano diventate subito l'occasione per una campagna politico-mediatica che aveva preso di mira il Quirinale («colpiscono lei per colpire me» aveva scritto Napolitano in una lettera indirizzata a D'Ambrosio). Nelle scorse settimane, poi, la vicenda aveva assunto toni molto accesi con la Procura che, nella propria memoria difensiva, aveva sottolineato che la «totale immunità vale solo per i re». Ora la sentenza dà ragione a Napolitano. «È un tema complesso - commenta l'Anm - e l'intervento della Consulta ha fatto chiarezza su una situazione non regolata da una norma specifica del codice di Procedura Penale e che si prestava a diverse interpretazioni». E da Palermo arriva il commento di uno dei pm titolari dell'inchiesta Stato-mafia, Nino Di Matteo: «Vado avanti nel mio lavoro con la coscienza tranquilla ritenendo di aver sempre agito nel pieno rispetto della legge e della Costituzione».

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