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Napolitano, il ragazzino del Pci Solo lui può rinnovare la sinistra

Il capo dello Stato Giorgio Napolitano

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Era solo apparentemente stanco il Giorgio Napolitano visto e sentito ieri a colloquio come un nonno, davanti alle telecamere della Rai, con un gruppo di studenti in visita al Quirinale. «Nessuno è indispensabile», ha detto il capo dello Stato agli ospiti prima di fare un accenno alla sua successione e ad un'età, la propria, che ne renderebbe improbabile, almeno in condizioni ordinarie, una rielezione. Essa peraltro sarebbe un assoluto inedito nella storia della Repubblica. Ma chi può dire onestamente che siano ordinarie le attuali condizioni politiche e istituzionali, per non parlare di quelle economiche e finanziarie? E chi può altrettanto onestamente fermarsi all'anagrafe per liquidare come vecchio, a tutti gli effetti, un uomo in realtà più moderno di tanti giovani messi insieme nella concezione dei rapporti politici e sociali e, più in generale, dello Stato? Sono domande alle quali è ben difficile sottrarsi di fronte a quanto sta accadendo in questi giorni, specie a sinistra, che è il campo politico di provenienza dell'attuale presidente della Repubblica. È un campo politico, quello della sinistra, che lo stesso Napolitano ha voluto rivendicare nel messaggio televisivo dello scorso Capodanno per ricavarne nuovamente appelli alla responsabilità, alla moderazione e alla coesione nazionale, non certo alle vecchie rigidità e contrapposizioni. O a quella visione palingenetica degli scioperi che ieri, dopo averne deliberato e annunciato per sedici ore senza fissarne la data, la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso ha minacciato di appesantire ulteriormente contro la riforma della disciplina dei licenziamenti predisposta dal governo. Quel messaggio di Capodanno di Napolitano era stato preceduto qualche giorno prima al Quirinale da un significativo scambio polemico di battute proprio con la Camusso, in un rinfresco seguito alla cerimonia degli auguri delle massime rappresentanze parlamentari e sociali al capo dello Stato. Poiché Napolitano aveva colto l'occasione per difendere la ministra del Lavoro Elsa Fornero da un duro attacco sferratole dal maggiore sindacato per il proposito appena annunciato di estendere alla materia dei licenziamenti il negoziato, o confronto, sulla riforma del mercato del lavoro, la segretaria della Cgil aveva poco garbatamente scosso la testa e agitato un dito per ribadire al capo dello Stato il suo dissenso. E aveva confermato il proposito di contrastare sino in fondo il governo, come poi avrebbe fatto. Di quella testa e di quel dito di protesta della donna alla guida della Cgil Napolitano si ricordò bene qualche giorno dopo: ancora più che nel messaggio televisivo di Capodanno, in un incontro voluto nella sua Napoli con un gruppo di vecchi amici e compagni di lotte politiche e sindacali. Ai quali volle ricordare, perché la "suocera" Camusso intendesse bene, che «ci sono cose che cambiano e che non si possono più difendere». E aggiunse, per essere più esplicito e chiaro: «I sindacati, il movimento operaio devono capirlo, e capirlo per tempo. Quando non ci riuscirono si subirono sconfitte storiche, come alla Fiat negli anni Cinquanta. E io le sconfitte non le dimentico». Ma già dieci anni fa, ben prima quindi di essere eletto alla Presidenza della Repubblica, esattamente il 23 marzo 2002, nello stesso giorno in cui la Cgil guidata allora da Sergio Cofferati riempiva di tre milioni di dimostranti le strade e il Circo Massimo di Roma per protestare contro la modifica della disciplina dei licenziamenti, chiesta dalla Confindustria e condivisa dal secondo governo di Silvio Berlusconi, il buon Napolitano aveva chiesto alla sinistra sindacale e politica ben altre scelte. «Un atteggiamento sindacale combattivo - aveva detto in una intervista al Corriere della Sera - è del tutto legittimo, ma se non è più propositivo, in linea con le esigenze di rinnovamento del mercato del lavoro e delle relazioni sociali, rischia di non essere produttivo». Chi ha avuto modo di avvicinarlo in questi giorni e di parlargli privatamente, commentando le polemiche provocate anche dal sostegno da lui fornito al governo di Mario Monti su questa materia, gli ha sentito ricordare proprio le parole spese sulla manifestazione della Cgil di dieci anni fa. E ne ha raccolto la delusione per il «tempo perduto», come si leggeva ieri sulla Stampa. Eppure solo quattro giorni prima di quella dimostrazione i soliti terroristi avevano tradotto a modo loro le proteste sindacali in corso contro i progetti di riforma del mercato del lavoro uccidendone a Bologna, sotto casa, il teorizzatore Marco Biagi. Al quale la Cgil dedicò in quella manifestazione un minuto di silenzio: un po' poco, se permettete, per riparare ai danni procurati da troppi e troppo ingiusti attacchi rivoltigli in vita. Dieci anni «perduti» veramente da allora ad oggi. Ma non sarà probabilmente perduto, grazie a Dio, l'anno e poco più che rimane del mandato di Napolitano al Quirinale. Altro che stanco, come può essere ieri apparso in televisione, come dicevo all'inizio, il presidente della Repubblica in una ripresa fatta parecchie settimane fa. Grazie alla sua determinazione si riuscirà forse e finalmente a cambiare pagina anche in questo campo minato del sindacato e della politica, forse il più bloccato e arcaico. Che ieri peraltro è stato difeso puntualmente, con espliciti attacchi al capo dello Stato, anche da quelli del Manifesto, in un gioco di specchi a dir poco schizofrenico. Innovatori a tal punto da guadagnarsi nel lontano 1969 l'espulsione dal loro vecchio partito, che non ne tollerò il rifiuto della disciplina interna e le proteste per l'indifferenza di fronte alla normalizzazione sovietica dell'allora Cecoslovacchia, i comunisti di quel giornale sono invece rimasti irriducibili nella loro concezione arcaica dei rapporti sociali. Che presuppone per forza i lavoratori da una parte e i padroni dall'altra, il bene e la ragione con gli uni e il male e il torto con gli altri. E chi, provenendo da sinistra, dissente da questa visione manichea o è un vecchio rincitrullito o è un traditore. Che, nel caso di Napolitano, come gli rimproverava ieri sul Manifesto, appunto, la direttrice Norma Rangeri, si sarebbe schierato sui licenziamenti più a destra addirittura del nuovo presidente designato della Confindustria Giorgio Squinzi. E avrebbe procurato al «povero Bersani», il segretario del Pd, «un malcelato stupore e un filo di rabbia», dietro la facciata di un «dovuto rispetto».

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