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Fini e i precedenti. Ma solo degli altri

Gianfranco Fini

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Veniva da ridere a sentire ieri il presidente della Camera invocare nell'aula di Montecitorio la prassi, cioè i precedenti, per annunciare e giustificare il sipario calato dalla giunta del regolamento sul percorso del rendiconto generale dello Stato e del correlato assestamento di bilancio dopo l'incidente dell'altro ieri. Quando a parità di voti, e per una ventina di assenze nella maggioranza, fra le quali quella particolarmente sconcertante del ministro dell'Economia, è stato bocciato il primo articolo del bilancio consuntivo del 2010. Se vi sono cose dalle quali Gianfranco Fini dovrebbe tenersi lontano sono i precedenti. In forza dei quali egli avrebbe dovuto dimettersi l'anno scorso, quando si consumò la rottura con Silvio Berlusconi e lui fece fondare dai suoi amici un nuovo gruppo parlamentare, e poi un partito, collocandolo all'opposizione. E poi ancora contribuendo, in riunioni svoltesi nel suo ufficio e dintorni, alla preparazione della mozione di sfiducia al governo bocciata nella ormai famosa seduta del 14 dicembre. Furono sin d'allora ricordati inutilmente a Fini i precedenti, fra gli altri, di Giuseppe Saragat e di Sandro Pertini. Che si erano dimessi, rispettivamente, da presidente dell'Assemblea Costituente e da presidente della Camera nel 1947 e nel 1969, quando il primo promosse e il secondo subì una scissione del partito – quello socialista, per entrambi – che li aveva designati al loro incarico costituzionale. Saragat fu sostituito dal comunista Umberto Terracini, mentre Pertini venne ringraziato da tutti per la sensibilità dimostrata con la rinuncia, al termine di una vicenda politica nella quale si era peraltro tenuto in disparte, e fu confermato nella carica. Fini, non potendo evidentemente contare sulla conferma, visto il forte ruolo esercitato nella rottura del Pdl, si guardò bene dal dimettersi. E infilò una serie imbarazzante di conferenze stampa ed altre esternazioni onanistiche, in cui a parlare era solo lui, senza che nessuno potesse fargli domande, magari proprio sui precedenti di Saragat e di Pertini. Ma anche di Cesare Merzagora, dimessosi negli anni Sessanta da presidente del Senato per avere espresso opinioni difformi da quelle del governo allora in carica: cosa che Fini faceva spesso già prima della rottura formale con Berlusconi. Che si consumò proprio a causa delle ormai abituali contestazioni, da parte del presidente della Camera, delle scelte e dei comportamenti «cesaristi» – diceva lui – del presidente del Consiglio. Da presidente della Camera Fini ha chiesto e ottenuto ieri un'udienza al Quirinale per riferire al capo dello Stato sulla «anomalia della situazione», come ha spiegato ieri stesso nell'aula di Montecitorio il leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini, nonchè capo del cosiddetto Terzo polo. Di cui i finiani fanno parte con una certa, comprensibile sofferenza, non avendo immaginato almeno alcuni di essi che il loro leader da numero due del Cavaliere, nel Pdl, sarebbe diventato il numero due, o tre, dopo Francesco Rutelli, di Casini. Il quale ieri ha concesso al suo nuovo alleato il riconoscimento alquanto sorprendente di «comportamento ineccepibile», anche nella gestione del passaggio parlamentare che ha bloccato il rendiconto generale dello Stato e l'assestamento del bilancio. Dico «sorprendente» perché Casini, non foss'altro per l'esperienza vissuta pure da lui al vertice di Montecitorio ma con ben altro stile, sa bene che Fini è parte assai rilevante della «anomalia», appunto, della situazione politica italiana e degli equilibri istituzionali. Fanno parte di questa «anomalia», o per effetto di essa, anche le composizioni della giunta del regolamento e dell'ufficio di Presidenza della Camera, dove la maggioranza di governo si trova in minoranza per il loro mancato, o negato, o insufficiente aggiornamento alle modifiche intervenute nello scacchiere e nel numero dei gruppi parlamentari durante la legislatura. Anomalo, infine, è anche il mandato conferito a Fini dalle opposizioni, e da lui accettato, di riferire al presidente della Repubblica della loro dura contestazione – non a torto definita «eversiva» dal capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto – del dibattito di fiducia legittimamente chiesto e ottenuto per oggi e domani a Montecitorio dal presidente del Consiglio. Alle opposizioni non mancavano e non mancano certamente i mezzi e i modi per far conoscere direttamente le loro opinioni al capo dello Stato. Che non può farsi convincere dalle loro scomposte proteste a ignorare l'articolo 94 della Costituzione. «Ciascuna Camera – esso dice testualmente, al secondo comma – accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale».   Il che può avvenire per un numero illimitato di volte, anche se il capogruppo del Pd Dario Franceschini e i suoi compagni ne sono infastiditi. E vogliono praticare un Aventino ad horas. Modi diversi dall'appello nominale per verificare la fiducia o la sfiducia al governo non sono quindi contemplati dalla Costituzione, a dispetto del chiasso provocato dalla bocciatura, con votazione ordinaria, del primo articolo del bilancio consuntivo dello Stato del 2010. Né sono appropriati i precedenti anche questa volta richiamati per cercare di mettersi la Costituzione sotto i piedi. Si è invocato soprattutto quello del democristiano Giovanni Goria, dimessosi da presidente del Consiglio negli anni Ottanta per una bocciatura rimediata sul bilancio.   Quel precedente non fa onore a chi lo evoca, soprattutto se di provenienza non democristiana, perché appartiene ad una pratica politica – essa sì – da basso impero. Il povero e compianto Goria nel 1988 dovette sloggiare da Palazzo Chigi perché il suo posto veniva reclamato per sè da chi l'anno prima glielo aveva di fatto assegnato temporaneamente: l'allora segretario della Dc Ciriaco De Mita. Che peraltro non ricavò molta fortuna dalla staffetta, visto che in poco più di un anno egli perse prima la guida del partito e poi quella del governo: la prima a vantaggio di Arnaldo Forlani, con un regolare passaggio congressuale, e la seconda a vantaggio di Giulio Andreotti, con l'altrettanto regolare passaggio di una crisi.

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