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La scienza non si ferma per decreto

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Dietrofront: niente centrali nucleari in Italia. E non per una semplice moratoria di un anno, come era stato previsto dopo il disastro di Fukushima: il governo ha ieri deciso lo stop al piano che prevedeva la costruzione entro il 2020 di otto reattori atomici di terza generazione abrogando l'intero progetto. A differenza però di quanto accadde dopo il referendum del novembre 1987, stavolta non si ferma la ricerca e non si chiudono i laboratori. Questo, almeno, nelle (buone) intenzioni. La decisione è giunta come spesso accade, per vie indirette, con un emendamento al decreto legge omnibus, che conteneva la moratoria, in discussione al Senato. E precisamente, dice la modifica dell'articolo 5, «al fine di acquisire ulteriori evidenze scientifiche, mediante il supporto dell'Agenzia per la sicurezza nucleare, tenendo conto dello sviluppo tecnologico e delle decisioni che saranno assunte a livelli di Unione europea, non si procede alla definizione e attuazione del programma di localizzazione, realizzazione ed esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare». Poco prima a Bruxelles, parlando alla commissione Affari costituzionali del Parlamento europeo, Giulio Tremonti aveva anticipato la linea governativa invitando la Ue a finanziare con eurobond la ricerca sulle energie alternative (oltre a sottoporre a stress test tutti i trattati comunitari, figli di un'altra epoca). Nel pomeriggio una nota di palazzo Chigi ha «chiarito» che con l'emendamento viene affidato al Consiglio dei ministri la definizione di una nuova Strategia energetica nazionale che «terrà conto delle indicazioni stabilite dall'Unione europea e dai competenti organismi internazionali e, prima di essere approvata definitivamente dal Consiglio dei ministri, sarà sottoposta all'esame della conferenza Stato-Regioni e delle competenti Commissioni parlamentari». Come diceva Ennio Flajano, in Italia la via più breve per congiungere due punti è spesso l'arabesco; neppure questo caso fa eccezione. Ma se la decisione è tortuosa, non si può negare che sia ragionevole. Anche per chi, come noi, era e rimane nuclearista. Dopo Fukushima molte certezze sono venute meno: non sull'energia atomica in sé, ma sulla effettiva sicurezza delle centrali e su chi se ne occupa. E dunque è giusto fermarsi, come sta del resto facendo non solo l'Europa, ma quasi tutto il mondo, Cina compresa. La decisione ha prodotto una valanga di reazioni. L'opposizione, dal Pd all'Italia dei Valori, la giudica una furbata per evitare il referendum del 12 e 13 giugno. C'è anche questo, ma onestamente non crediamo che il governo abbia agito solo mosso da spirito opportunistico: la moratoria era più che sufficiente a sterilizzare qualsiasi esito del referendum. Né si può sottoscrivere quanto afferma, per esempio, la capogruppo del Pd al Senato, Anna Finocchiaro: «È solo uno stop temporaneo, che lascia aperta la strada a un eventuale ripensamento». E tanto meno la pronta dichiarazione del suo segretario Pier Luigi Bersani, un uomo come al solito con la soluzione giusta per tutto: «È una nostra vittoria». Sembra di capire che per la sinistra riformista italiana, che pure si fa continuamente paladina della ricerca, il nucleare resti un mostro da cancellare, non un ambito scientifico mondiale da esplorare. Che nulla sia insomma cambiato dal 1987. Nessuna sinistra al mondo è su questa linea. È giusto invece tenere in piedi laboratori e formare ricercatori, come si è ripreso a fare all'università di Genova, anche grazie al patrocinio non disinteressato (ma dov'è lo scandalo?) dell'Ansaldo. Così come è ovvio prevedere che la pausa sarà lunga, e che la ricerca si focalizzera non tanto sui reattori di terza generazione, che dovevano essere installati in Italia, quanto su quelli di quarta ancora a fissione; oppure sulla tecnologia di fusione dell'atomo, concettualmente opposta a tutto ciò che esiste attualmente. Non è un orizzonte molto più lontano rispetto al 2020: il department of Energy del governo Usa prevede che si possa parlare di applicazioni commerciali intorno al 2030. È certo che, siccome le altre fonti di energia sono in esaurimento – e costano sempre di più – il mondo non rinuncerà all'atomo. Ma poiché siamo in Italia, ecco il presidente della Puglia, Nichi Vendola, che parla di «comiche finali». Molto più seri i commenti di due esponenti radicali, Emma Bonino ed Elisabetta Zamparutti: «Il governo ha riconosciuto oggi l'errore di aver voluto imporre un rientro nel nucleare al di fuori della definizione di una strategia energetica nazionale». Entrambe chiedono «più fondi per la ricerca e l'innovazione tecnologica» privilegiando le energie rinnovabili, il risparmio energetico ed efficienza. L'emendamento del governo sembra prevedere, o promettere, un po' di tutto. Forse troppo: si parla di «strategia energetica, diversificazione delle fonti e delle aree geografiche di approvvigionamento, miglioramento della competitività e sviluppo delle infrastrutture». Di «incremento degli investimenti in ricerca e sviluppo». Non manca l'impegno allo «sviluppo di filiere industriali nazionali» e alla riduzione dell'inquinamento. Di concreto c'è la conferma della realizzazione del deposito nazionale per le scorie radioattive – un obbligo europeo – con relativi benefici economici per l'area interessata, ed il fatto che sarà ancora la Sogin ad occuparsene. Resta in piedi anche l'Agenzia presieduta da Umberto Veronesi. Parole? Vedremo. Il tempo in questo caso è alleato. Ci restano due curiosità. La prima: quanto questo colpo di scena, benché annunciato, influirà sulle relazioni tra Italia e Francia, ai minimi storici, e sul vertice tra Silvio Berlusconi e Nicolas Sarkozy del 26 aprile. Per il piano nucleare italiano l'Enel e l'Ansaldo hanno firmato accordi con EdF e Areva, due gruppi pubblici francesi considerati dall'Eliseo anche strumenti della penetrazione economica e strategica all'estero. Seconda curiosità: Tremonti ha poco tempo fa ridotto i benefici fiscali per le energie cosiddette verdi, definendoli “un bancomat di Stato”. Noi abbiamo scritto che aveva ragione, e che per esempio dietro al boom dei pannelli solari (la gran parte made in China) si nasconde un business che di ecologico ha ben poco. Non abbiamo certo cambiato idea. Se il governo, anziché finanziare il fai-da-te e relative aziende con le bollette di tutti noi, destìna alla ricerca parte di quei fondi (5,7 miliardi nel 2011), fa un bene alla scienza, alle tasche dei contribuenti e anche alla propria credibilità.

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