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Accecati dall'antiberlusconismo il Pd e i suoi cespugli affondano l'Italia

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È una vergogna, forse seconda solo a quella di Gheddafi per la tragedia inferta al suo popolo, il no che il maggiore partito d'opposizione ha gridato in Italia alla richiesta del governo di una gestione unitaria della crisi che ci sta cadendo addosso dalla Libia. L'antiberlusconismo è già una degenerazione della lotta politica per la carica personalistica che contiene. Lo sciacallaggio è qualcosa d'orribile. È un delitto contro la collettività nazionale. Che si preferisce affondare, sotto il peso di un aumento biblico dell'immigrazione, solo per parlare dell'effetto più immediato e vistoso di quanto avviene dall'altra parte del Mediterraneo, piuttosto che dare una mano al governo guidato dall'odiato Cavaliere. Contro il quale, quindi, tutto è lecito, anzi doveroso. Che schifo, anche quello della cosiddetta grande stampa, che non deplora o mostra addirittura comprensione per un simile tipo di lotta politica. Silvio Berlusconi, per carità, ha pure commesso i suoi errori, come al solito di stile prima di tutto, nello sviluppo dei rapporti con il dittatore libico ereditati da tutti i suoi predecessori a Palazzo Chigi, ma non è questa una buona ragione per scaricarsi delle responsabilità che in un paese civile e democratico incombono anche sull'opposizione nei momenti drammatici. E ditemi voi se questi che stiamo vivendo non lo sono sotto il profilo sociale, economico e della stessa sicurezza nazionale. Di questa vergogna del Pd, e dei suoi cespugli, è sembrato rendersi conto dai banchi dell'opposizione Pier Ferdinando Casini nel dibattito svoltosi nell'aula della Camera l'altro ieri, dopo le comunicazioni del governo sulla tragedia libica. Ma, riconosciutogli questo merito, va pur detto che il leader dell'Udc, e del polo che si sta confusamente raccogliendo attorno a lui dopo l'inconsistenza politica manifestata da Gianfranco Fini, ha contribuito non poco negli ultimi mesi a far crescere l'antiberlusconismo, sino a cavalcare un certo moralismo falso e peloso. Al quale, per esempio, egli ha ceduto anche quando si è affrettato a chiudere quello spiraglio che aveva mostrato di aprire all'ipotesi di un ripristino dell'immunità parlamentare, necessario per riequilibrare i rapporti tra la magistratura e la politica. Sì, lo so, ha chiuso a questa ipotesi anche Umberto Bossi, l'alleato più solido di Berlusconi, preferendo non contraddire il contributo dato dalla Lega nel 1993 all'amputazione dell'immunità parlamentare. Ma Bossi ha da difendere elettoralmente una tradizione, che tuttavia non gli impedisce di considerare prevenuta buona parte della magistratura nei riguardi del Cavaliere. Quella di Casini è una tradizione del tutto diversa. Egli è nato e cresciuto consapevolmente nella Dc, spazzata via negli anni di Tangentopoli assieme ai suoi alleati da un uso tanto spregiudicato quanto parziale della giustizia. Bossi non tradisce una storia, Casini sì. E non pensi, per favore, di cavarsela riscrivendo la fine del suo partito, e della cosiddetta Prima Repubblica, alla maniera gradita ai suoi avversari di un tempo per coltivarseli come alleati di oggi o di domani. Va bene che molto tempo è passato da allora, ma sono ancora molti gli elettori che ne hanno viva la memoria e potrebbero fargli pagare cara quella che lui rimuove quando nega che la Dc, la sua Dc, sia morta per mano giudiziaria. O quando sostiene, come fa sempre più spesso da qualche tempo, nelle aule parlamentari e nei salotti televisivi, che la vecchia classe politica pagò meritatamente l'errore di avere abusato dei suoi "privilegi", come lui definisce anche l'immunità parlamentare. Certamente di quell'immunità vi fu largo e deplorevole abuso, da parte di tutti, al governo o all'opposizione che fossero. Alla sua funzione, allora, di deputato si richiamò anche il severissimo Eugenio Scalfari per protestare contro una contravvenzione per sosta vietata che un vigile di Milano osò applicargli. Ma non mi sembra né giusto né onesto che ad un eccesso si debba rimediare con un altro eccesso, qual è il diritto reclamato o comunque acquisito dalle Procure della Repubblica di dettare l'agenda politica. Né mi sembra giusto e onesto sostenere, come più o meno esplicitamente fanno le opposizioni, che "non è questo il momento" di riproporre l'immunità parlamentare perché ne potrebbe ricavare vantaggio sul piano giudiziario l'attuale presidente del Consiglio. Che pertanto è e deve rimanere un imputato speciale. E tutto questo, si badi bene, in una Europa nel cui Parlamento siedono deputati italiani coperti, al pari dei colleghi degli altri Paesi dell'Unione, di quell'immuntà abolita e tuttora negata a Roma. Il discorso non cambia se dall'immunità parlamentare si sposta agli altri aspetti delle riforme istituzionali. È insomma bandito tutto ciò che solo "puzza" di Cavaliere, persino una gestione unitaria - come dicevo all'inizio - della crisi in arrivo dalle coste africane e dalla polveriera limitrofa del Medio Oriente. Se questa è l'Italia che piace, livida e feroce, non hanno forse tutti i torti quelli che hanno poca voglia di festeggiarne il secolo e mezzo di unità.  

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