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Il nostro Paese non impara niente dai suoi errori, li ripete ciclicamente.

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L'addi Fiat evita l'autoscontro istituzionale e ci sta. Spero di non dover scrivere che lo sventurato rispose. Ma provate a leggere l'intervista della nostra Laura della Pasqua a Giorgio Cremaschi, segretario nazionale della Fiom, e ditemi se c'è ancora molto da sperare o se è il caso di attrezzarsi con un cappotto blindato per un autunno che si preannuncia caldissimo. Non condivido neppure una delle idee di Cremaschi, ma come direttore de Il Tempo, mi interessa presentare ai miei lettori, un quadro il più completo possibile delle idee che animano il dibattito pubblico del Paese. Cremaschi è una delle punte di diamante di un movimento ideologico e culturale ben sedimentato nello Stivale. Conduce una battaglia prima politica e poi sindacale che terrà banco nelle prossime settimane. Per la Fiom Marchionne è né più né meno che «un padrone delle ferriere», uno «più a destra di Berlusconi», uno degli elementi di un trio legato da un filo comune: Berlusconi, Tremonti e Marchionne sono la Trimurti da abbattere. A Marchionne non viene perdonato il fatto di aver scassato un sistema arruginito di relazioni e potere che sulla Fiat aveva costruito le sue fortune. La casa di Torino per decenni ha accettato questo scambio innaturale, il ruolo di ammortizzatore sociale, ma a lungo andare la concorrenza ne ha decretato la fine: non si sta sul mercato a colpi di sussidi, bassi livelli di produttività, scioperi immotivati e automobili che fanno solo “brum brum”, ma si fermano. Quando Marchionne ha deciso di calare il poker per prendersi la Chrysler, negli Stati Uniti hanno rispolverato una vecchia battuta: “Fiat? Fix it again Tony”, riparala ancora Tony. Il numero uno di Corso Marconi sfida questo mito negativo, vuole produrre belle automobili e farlo con il lavoro, la creatività e l'impegno italiano. Tutto questo alla Cgil e alla sua costola, la Fiom, ai loro laudatori palesi e complici volontari e involontari nascosti non interessa. Prendete Furio Colombo, il prototipo dell'intellettuale della sinistra al caviale. Sul Fatto ieri ha grondato tutto il suo disprezzo per Marchionne e la sua visione d'impresa. «Probabile che Marchionne comparirà, vita e opere, nelle tracce dei temi di maturità del prossimo anno». Non male per un signore che dalla Fiat ha preso lo stipendio, Colombo infatti rivestì la non del tutto insignificante carica di presidente della Fiat Usa, fu corrispondente dall'America per La Stampa, giornale della Fiat. La strada di Marchionne è tutta in salita e anche chi ne riconosce le doti di leader – per esempio un buon articolo di Gad Lerner su Repubblica – non gli dà piena fiducia perché considera la strategia Fiat lontana dagli operai, concentrata sul capitale e la crescita, ma non sulla qualità dei modelli e delle relazioni industriali. Il rischio concreto è che la produzione Fiat prima o poi finisca all'estero. A quel punto resteremo a goderci lo spettacolo delle tute blu a braccia conserte, ma con un Cremaschi di turno che trionfa sul capitale. Senza più lavoro. E veniamo all'africano ospite illustre, il colonnello Gheddafi che domani sbarca a Roma. Il leader libico non è certo una persona comune. I suoi comportamenti fuori dal protocollo e da tutto quello che si chiama diplomazia sono noti. Ma Gheddafi oggi è un fattore di stabilità nel continente africano e in tutto il Medio Oriente, un partner economico affidabile per chi fa business con lui, un soggetto politico da tenere in grande considerazione. Lo sanno bene gli americani che, seppur storcendo il naso, sono ben lieti della sua svolta. Non è democratico e come lui gran parte dei leader politici a cui turandosi il naso viene concessa dignità di parola alle Nazioni Unite. Si chiama realpolitik, non fa parte del mondo ideale, ma con questa ci si confronta quando si fa politica estera. Gheddafi capeggiava un Paese che aveva un programma di acquisizione di armi di distruzione di massa che oggi non esiste più, era un finanziatore del terrorismo, un uomo spietato. Oggi continua a guidare la Libia con il pugno di ferro, ma la sua presenza e la sua rinuncia alla guerra all'Occidente, sono un'assicurazione sulla nostra vita. Tutto questo non piace ai tartufoni dell'opposizione? Propongano un'alternativa, se ne sono capaci. La Libia ha uno dei fondi sovrani più attivi del pianeta, ha risorse energetiche enormi, uno dei nostri campioni nazionali - l'Eni - ha investimenti fondamentali in quel Paese. Cosa dovrebbe fare Berlusconi? Dar retta all'Idv che manifesterà contro il colonnello o cercare di intrattenere relazioni degne di tal nome con un partner economico che dà ossigeno a una delle principali banche del Paese (Unicredit) e consente al nostro sistema di investire dove c'è un mercato potenziale enorme? Quando arriverà l'inverno, chi fornirà il gas alle case degli italiani? La Libia insieme alla Russia. Con buona pace dei progressisti con il cappotto in cachemire. Chi ha a cuore le sorti dello Stato, lascia da parte le utopie e i desideri che non possono realizzarsi. Se l'opposizione vuole ridurre la propria piattaforma politica alla guerra santa contro l'auto e il cammello, faccia pure. Se vuole manifestare contro Gheddafi e dare un saggio della propria inattualità, si accomodi. Noi siamo qui. E ho l'impressione che avremo molto da scrivere.

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