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Gianfranco non molla Italo

Italo Bocchino

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Savino era il Vangelo. Era il centralinista del Secolo. Lo sfottevano e dicevano che si esprimeva come un codice fiscale, per la sua parlata un po' sbiascicata e la tendenza a mangiarsi le vocali. E vabbè, che c'entra Savino? C'entra perché dalla sua postazione osservava tutto, vedeva chi entrava al partito e con chi. E aveva una fenomenale capacità di affibbiare soprannomi. Bocchino, che chiamava ovviamente Itl solo con le consonanti, lo aveva soprannominato «Er socetto», il piccolo socio. Perché il «socio» era Pinuccio Tatarella. Italo Bocchino è così. Si lega in maniera indissolubile ai leader.   Ieri con Tatarella oggi con Fini anche se con Gianfranco ha avuto momenti difficili, anche aspri al punto che l'allora leader di An, quattro anni fa, lo piazzò in lista in una posizione in cui sarebbe stato trombato. Italo è invece uno cui piace il rischio e nella vita ha fortuna: viene eletto per il rotto della cuffia. Tra i due a questo punto sembra esserci un rapporto indissolubile. Al di là delle dichiarazioni più o meno pubbliche Fini si trova nella situazione che nella sua componente (o che dir si voglia, non si può chiamare corrente perché esse sono espressamente vietate nel Pdl) Italo Bocchino non è visto di buon occhio. È di fatto considerato l'autore della linea dura, colui che ha portato Fini a un passo dalla scissione. Anche in maniera vagamente illogica perché è difficile pensare che Bocchino detti la linea a Fini ed è arduo pensare che il primo agisca senza l'avallo del secondo. Tutto ciò non avrebbe alcuna importanza se non fosse diventata la questione più importante all'interno del Pdl. Bocchino s'è dimesso da vicecapogruppo vicario del Pdl. Secondo l'interpretazione che lui dà del regolamento interno del gruppo Pdl alla Camera, la sua elezione è stata in ticket con quella del capogruppo, Fabrizio Cicchitto. E infatti Bocchino ha contestualmente annunciato che si ricandida subito a capogruppo, così avrà i voti di qualche decina di deputati e certificherà - anche alla Camera - che esiste una minoranza interna.   Cicchitto diversamente ha fatto sapere che non esiste la possibilità di far valere alla rovescia il "simul stabunt, simul cadent". Il vicario è legato al capogruppo da un rapporto fiduciario: solo se cade il presidente cade il suo vice e non il contrario. Eventuali dimissioni di Bocchino non comporterebbero perciò le elezioni di nuovi vertici. Abbiamo ben altro a cui pensare, si è sfogato con più d'uno Cicchitto. E infatti la questione più che interna al Pdl è interna all'ala finiana. Contro Bocchino si è già espresso Amedeo Laboccetta (arrestato perché accusato ingiustamente di aver ricevuto da un imprenditore un finanziamento diretto al Msi, Fini lo andò a trovare in carcere: Laboccetta fu assolto) s'è sfilato. Dagli interventi svolti nella riunione dei finiani di due giorni fa è chiaro che anche Andrea Augello non è sulla linea autonomista. Meno che mai lo è Pasquale Viespoli, entrambi provengono da una tradizione rautiana. Come pure Silvano Moffa, ex presidente della Provincia di Roma, anche lui attestato sulla linea della trattativa. Adolfo Urso media con tutti: «Sono appena tornato dall'Azerbajan, è successo qualcosa?», dice scherzando davanti alla cassetta postale. Con Bocchino c'è Carmelo Briguglio, l'unico ad aver «sfrattato» dalla sua stanza Donato Lamorte, storico braccio destro di Fini, quando questi mollò la guida del partito. Il resto dei big non si esprime. Esce invece allo scoperto Roberto Menia, che più che finiano è griltziano, seguace di Almerigo Griltz, il reporter triestino amico di Gianfranco che morì mentre raccontava una guerra in Africa. Dice Menia: «Non capisco questa ricostruzione da azzeccagarbugli che se si dimette il vice, cade anche il presidente... Ma di che parliamo? Alla riunione nella sala Tatarella, Fini ci ha detto per inciso che Italo si sarebbe dimesso per rasserenare gli animi. Oggi Bocchino fa finta di dimettersi per poi candidarsi alla presidenza del gruppo un attimo dopo... Siamo alla sceneggiata napoletana, io non ci sto a farmi prendere per i fondelli in questa maniera...Se si va veramente alla resa dei conti, vuol dire che mi candido pure io». Dopo di che Menia viene chiamato da Fini, lo raggiunge nel suo ufficio. E il presidente della Camera chiarisce: «Non posso mollare Italo. È nel momento di massima esposizione, è sotto tiro. Sarebbe immorale». Menia non molla e chiarisce che all'assemblea del gruppo lui avanzerà la sua candidatura, Fini lo gela: «Sei proprio sicuro che si farà quella riunione? Io non ci giurerei». Roberto se ne va, raggiunge l'Aula, in tanti gli danno la solidarietà. Forse anche un ministro. Forse Andrea Ronchi, rimasto silenzioso in questi giorni. Ora però Gianfranco è a un bivio. Va avanti e rischia di perdere altri pezzi o recede? Ancora un po'.

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