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I giorni difficili del Capo dello Stato

Giorgio Napolitano

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{{IMG_SX}}... non certo per il fastidio procuratogli dalla storta al piede che gli ha già impedito sabato scorso di partecipare ai funerali di Stato delle vittime del nubifragio a Messina. E neppure - io penso - per le critiche mosse anche a lui dal presidente del Consiglio per il verdetto emesso dalla Corte Costituzionale contro la legge che sospendeva i processi penali a carico delle quattro maggiori cariche dello Stato durante l'esercizio dei loro mandati. Sì, naturalmente le critiche rivoltegli da Silvio Berlusconi lo hanno amareggiato. E il presidente del Consiglio avrebbe potuto anche risparmiargliele, non foss'altro per evitare di fornire pretesti al maggiore partito d'opposizione, il Pd. Che ha potuto assalirlo ancora una volta sorvolando non sui rilevi, ma sugli insulti lanciati dal proprio alleato Antonio Di Pietro al capo dello Stato. Al quale l'ex magistrato aveva inutilmente chiesto con i suoi soliti metodi spicci di rinviare alle Camere, fra le altre, proprio quella legge. Ma il disagio di Napolitano, sentitosi costretto ieri persino a rintuzzare una ricostruzione giornalistica, imprecisa solo nei toni, delle origini del provvedimento bocciato mercoledì scorso dalla Corte, deriva innanzitutto dal verdetto dei giudici costituzionali. Essi gli hanno procurato, volenti o nolenti, un danno gravissimo, almeno d'immagine. Che per un presidente della Repubblica è tutto, viste le sue alte funzioni di rappresentanza e di garanzia. L'ultima legge cancellata dalla Corte, contrariamente a quanto hanno fatto credere alcuni giornali compiacenti, non è minimamente paragonabile alle altre cadute sotto la sua mannaia ma promulgate dai predecessori di Napolitano: le 9 di Carlo Azeglio Ciampi, le 26 di Oscar Luigi Scalfaro, le 54 di Francesco Cossiga e le 43 di Sandro Pertini, per fermarci agli inquilini succedutisi al Quirinale negli ultimi trent'anni. Nossignori, quella promulgata l'anno scorso da Napolitano, e bocciata l'altra settimana dalla Corte, è l'unica firmata da un presidente della Repubblica con tanto di spiegazione ufficiale, opposta a chi protestava anche perché approvata con le procedure ordinarie, e non quelle doppie e speciali prescritte dall'articolo 138 della Costituzione quando se ne vogliono cambiare parti o principi. Il capo dello Stato, come aveva già fatto motivando la sua autorizzazione alla presentazione del disegno di legge del governo Berlusconi al Parlamento, aveva spiegato con la puntigliosità a lui consueta di considerare il tipo di provvedimento in linea con una sentenza emessa quattro anni prima su una legge analoga dalla Corte. Che aveva eccepito sui suoi contenuti, opportunamente modificati con il testo successivo, non sulla sua natura di legge ordinaria, anziché costituzionale. La stessa Corte, d'altronde, si è mostrata consapevole della contraddizione in cui è caduta, e della confusione procurata al sistema istituzionale, bocciando a sorpresa il carattere ordinario del provvedimento. Essa ha rispolverato ieri dai suoi archivi un'altra sentenza, emessa e non rispettata durante uno dei processi contro Cesare Previti, per avvertire in sostanza che le udienze giudiziarie a carico del presidente del Consiglio dovranno avere calendari compatibili con l'esercizio delle sue funzioni, cioè tempi lunghissimi, con effetti praticamente simili alla sospensione. Che la Corte invece ha appena rifiutato.

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