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Fini: si va nel Pdl senza paura

Gianfranco Fini

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{{IMG_SX}}C'è stato un momento, uno preciso, nel quale forse nessuno della classe dirigente di An si sarebbe voluto trovare sul palco dell'ultimo congresso di Alleanza nazionale. Gianfranco Fini aveva già "bombardato" un paio di colonne portanti della destra italiana (per lo meno quella intesa in modo tradizionale). Anzi, aveva direttamente archiviato l'esistenza di un partito semplicemente di destra in Italia. È l'attimo esatto nel quale il presidente della Camera si volta verso la classe dirigente di An, si ferma un attimo, poi scandisce: con la nascita del Pdl «tutti devono mettersi in discussione, anche io lo farò». Fini, in sostanza, chiede alla destra italiana di uscire da una casa con la certezza di non farvi più ritorno. Non quella "del Padre", come fu a Fiuggi. Ma quella di Alleanza Nazionale, che ieri ha chiuso i battenti per entrare nel Pdl. Non suonano affatto come parole dette a caso. O come le classiche espressioni che si usano in occasioni come queste. Quello che è apparso ieri sul palco della Nuova Fiera di Roma è un Gianfranco Fini che ha voglia di rompere con il passato, con i vecchi schemi e le vecchie ideologie. Un leader che non cancella la storia di oltre cinquant'anni di politica, ma invita a guardare oltre, a pensare «agli italiani del futuro». Così, se il primo giorno del congresso si è avvertita una certa nostalgia verso i valori veri della destra, verso quell'identità slogan di tante occasioni e di tante battaglie, ieri Fini ha sgombrato il campo da ogni dubbio. «Nessuno pensi di costruire nel Pdl una corrente di An», perché se così è «meglio che non entri affatto nel Popolo della libertà». Un discorso fatto interamente a braccio: in mano aveva solo dei foglietti con la scaletta delle cose da dire. Abito grigio chiaro, gemelli con il tricolore, cravatta blu a pois bianchi. Al suo fianco la bionda compagna, Elisabetta Tulliani che, coda di cavallo e tailleur blu, gli sorride per tutto il tempo e alla fine lo promuove: «Gianfranco è stato bravissimo, nonostante la grande emozione del momento». La platea lo ascolta con attenzione, molti sfoderano macchinette digitali per conservare un video-foto ricordo di un momento unico. Il primo applauso, dopo quello iniziale, arriva appena Fini ammette, lui notoriamente poco avvezzo a ostentare sentimenti, di provare «emozione» per questo discorso. La gratitudine è per il reggente Ignazio La Russa, nelle cui «mani salde ho lasciato il timone», ma anche per chi non c'è più, a cominciare da Marzio Tremaglia e Pinuccio Tatarella. I delegati (1800) applaudono e ogni tanto qualcuno grida «bravo» ma nell'aria aleggia la sensazione di ascoltare qualcuno che è stato il «proprio» leader, ma che ora parla ad una platea più vasta, in parte sconosciuta come l'Italia dei prossimi decenni cui Fini invita a pensare. Un sassolino dalla scarpa se lo toglie quando cita «coloro che non hanno condiviso il nostro percorso e hanno intrapreso quello che si è rivelato un viottolo, una strada bloccata dagli elettori». Persone perse per strada, forse Storace, forse Fisichella, ma niente nomi. Da settimane la preoccupazione di buona parte dei vertici aennini era quella di veicolare un messaggio: la destra non smobilita. Con un pensiero fisso rivolto alla questione leadership (duale come ipotizzato da Andrea Ronchi?). Anche qui, siccome di discorso che guarda all'Italia "dei prossimi 15 anni" si tratta, il presidente della Camera mette in chiaro che il nuovo partito «ha un leader che è Berlusconi ed è di tutta evidenza». Pur aggiungendo che il premier non potrà essere l'unico ad avere peso nel futuro partito. Alla fine, il presidente della Camera si commuove, nell'abbraccio di tutti i suoi colonnelli: «Sono veramente svuotato, mi sento come dopo una difficile immersione subacquea», confida a uno di loro. Scende le scale del palco e si dirige nella saletta privata. Per poi lasciare subito dopo il padiglione otto, quello dell'ultimo congresso di An.

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