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Di Pietro, il populista che si offriva ai politici

Di Pietro e Berlusconi

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Di Pietro sarà pur diventato «un populista di minoranza», ma secondo D'Alema ancora più populista di lui sarebbe Silvio Berlusconi, che aveva cercato per primo di arruolarlo offrendogli nel 1994 il Ministero dell'Interno, quando egli era ancora il sostituto procuratore simbolo delle inchieste su Tangentopoli. Del rifiuto di quell'offerta, fattagli nello studio romano dell'avvocato Cesare Previti dal presidente del Consiglio in persona, fresco di nomina, Di Pietro si vanta nel libro «Il guastafeste» uscito da poco per le edizioni «Ponte alle Grazie», in cui ha «confessato» la sua esperienza politica al giornalista Gianni Barbacetto. Che l'ha per fortuna tradotta in 195 pagine scritte in buon italiano, con tutti i congiuntivi e i tempi a posto, come spesso non capita all'ex magistrato parlando «dipietrese», com'egli stesso scherzosamente ammette. Il no pronunciato a Berlusconi nel 1994 è presentato dal guastafeste come una meritoria prova di saggezza, anzi di preveggenza. Peccato però che, tornando a Milano dai suoi colleghi, Di Pietro non avesse disapprovato quell'invito capitatogli tra capo e collo allo scopo oggi denunciato di corromperlo con una carriera politica. Peccato inoltre ch'egli avesse lasciato a Berlusconi l'impressione, come vedremo, di poter poi gradire un altro incarico. Sentite come l'allora capo della Procura di Milano racconta a Marcella Andreoli in un libro pubblicato da Baldini&Castoldi nel 1998 — «Borrelli - Direttore d'orchestra» — il rientro del suo sostituto in ufficio dopo l'incontro con il presidente del Consiglio: «Era rimasto affascinato da Berlusconi. Tornò dicendo che Berlusconi lo aveva stregato». Si capisce a questo punto la rabbia provata dallo stesso Borrelli il 13 aprile 1995, meno di un anno dopo, quando sentì Berlusconi raccontare in televisione a Michele Santoro di avere raccolto da Di Pietro, in un incontro privato svoltosi di recente, la confessione di avere firmato senza convinzione, ma solo per disciplina d'ufficio, il famoso «invito a comparire» per le indagini sulla corruzione di alcune guardie di finanza. Esso era stato notificato a Berlusconi nell'autunno precedente accelerando la crisi del suo primo governo. Sentite anche qui cosa racconta Francesco Saverio Borrelli all'Andreoli della telefonata fatta quella sera a Di Pietro, forse con il televisore ancora acceso: «Gli dissi che era suo dovere chiarire come erano realmente andati i fatti e gli intimai di guardarsi bene dal venire in Procura». Più in particolare, Borrelli gli gridò: «Ti faccio buttar giù dalle scale se non fai immediatamente il tuo dovere». Di Pietro, che da pochi mesi si era improvvisamente messo fuori ruolo dalla magistratura, cercò di rimediare su «La Stampa» scrivendo: «Di ogni atto che ho firmato mi assumo la responsabilità». Ma Borrelli continuò ad essere «allibito» e a considerare quella del suo ormai ex sostituto «una defezione», o addirittura «una diserzione», come qualcuno lo aveva sentito dire «in privato», racconta sempre l'Andreoli. Seguì la sera di martedì 18 aprile un tentativo di chiarimento a casa del sostituto procuratore Gherardo Colombo, in una cena a base di «un ottimo arrosto, molto apprezzato dai commensali», fra i quali il «transfuga» Di Pietro. Che fu invitato senza mezzi termini a spiegare l'incontro con Berlusconi, che pure nell'autunno precedente da sostituto procuratore egli si era offerto a Borrelli di «sfasciare» nelle indagini in corso a suo carico. Ma c'erano anche altri incontri nelle menti dei commensali. «Era ben vero, perché tutti ne parlavano, che Di Pietro — racconta ancora l'Andreoli — aveva rincorso un nugolo di politici: da Cossiga a Buttiglione, da Casini a Mastella e persino a Tremaglia, il missino. Ma quell'incontro ad Arcore sembrava proprio una bestemmia». Già, ad Arcore, perché proprio nella famosa villa del cavaliere si era accomodato Di Pietro ricevendo, fra l'altro, offerte «al vertice della Polizia o dei servizi di sicurezza», come egli stesso racconta nel suo libro ancora fresco di stampa.   ualcuno potrebbe dire, pensando a Di Pietro mancato capo della Polizia o dei servizi segreti e rischiando una querela, che l'abbiamo scampata bella. Ma noi non lo diciamo. Pensiamo piuttosto che Berlusconi si starà ancora stropicciando le mani vedendo come il cerino delle ambizioni politiche di Di Pietro sia finito, acceso, tra le dita della sinistra. Egli ebbe l'intuizione nel 1997 di opporgli nel collegio del Mugello l'unico candidato, Giuliano Ferrara, in grado di compattare attorno all'ex magistrato l'elettorato di sinistra colto di sorpresa dalla candidatura voluta da D'Alema, e tentato di votare Alessandro Curzi, proposto da Rifondazione Comunista. Piuttosto che dividersi a tal punto da far vincere Ferrara, l'elettorato del Pds ingoiò il rospo servito dal segretario del partito. «La politica mi aspettava al varco perché io allora, se mi fossi schierato, avrei attirato una grossa quantità di voti», racconta oggi il guastafeste Di Pietro alludendo alla girandola d'incontri avuti dopo aver dismesso la toga. Ma era stata più la politica ad aspettarlo, o lui a inseguirla sino al Ministero dei Lavori Pubblici, nel primo governo Prodi del 1996, e al traguardo parlamentare del Mugello l'anno dopo?

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