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Taradash: le leggi in Italia sono più manifesti ideologici che prescrizioni pratiche. Chi garantisce aiuti?

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Mi domando: è davvero lo Stato, nelle sue diverse articolazioni, che può dare una risposta a un dilemma morale, o sociale, così personale? Non hanno questi ragazzi genitori comprensivi, o coetanei attenti, o un amico di famiglia, o un sacerdote capace di ascolto, con cui confrontarsi prima di decidere? È naturale, in situazioni così difficili, attendersi aiuto e conforto psicologico anche da chi, un medico ginecologo o un'infermiera appena incontrati, non ha alcuna speciale professionalità per trattare con persone di cui sono sconosciute psicologia, storia, retroterra sociale o affettivo. Certo, si può essere fortunati e incontrare uno di quei medici che in generale hanno più attenzione per il malato che per la malattia: ce ne sono, immagino. Ma, diciamocelo francamente, dai medici ci aspettiamo di solito che facciano al meglio il loro lavoro di ausculta, taglia e cuci, e se tutto fila liscio tiriamo un bel sospiro di sollievo. Il resto è optional. In questo caso, è vero, non di malattia si tratta, ma di una richiesta di intervento medico molto particolare. La legge, lo si sa, non affida al medico il compito di mettere in discussione la scelta della donna che vuole abortire: la struttura sanitaria o il consultorio sono tenuti invece a esaminare se l'aborto è davvero una scelta obbligata quando alla sua origine vi sono ragioni economiche, sociali o familiari. Ma le leggi, specie in Italia, alle volte sono più manifesti ideologici che prescrizioni pratiche. Cosa significa infatti "offrire tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza che dopo il parto" come recita la legge 194? Tutti gli aiuti necessari, chi mai potrà garantirli? E' vero quanto lei scrive, che per le donne immigrate, che sono arrivate in Italia da paesi lontani per lavorare, e che oggi alimentano le statistiche sull'incremento degli aborti in Italia, l'alternativa reale è fra il bambino e il lavoro, fra la gravidanza e la casa che le ospita. Anche se volessero avere un figlio, non potrebbero. È profondamente ingiusto che sia così, ma se esiste una soluzione questa non può venire, temo, dalle strutture pubbliche. Negli Stati Uniti, sotto la pressione congiunta dei gruppi antiabortisti conservatori e dei sostenitori liberal delle "azioni positive", per lungo tempo hanno finanziato adeguatamente le ragazze madri, specie quelle di colore. Ma il risultato è stato negativo: è aumentato il numero dei figli nati fuori del matrimonio solo per garantire a madri e più spesso padri nullafacenti l'assegno sociale, si sono moltiplicati i casi di ragazzini e ragazzine abbandonati al loro destino sulle strade dello spaccio, della prostituzione e della delinquenza urbana. Finché non è stata fatta marcia indietro. Ben vengano allora i volontari pro-life nei consultori, ne sono convinto anch'io. Purché non sia un'ennesima forma di volontariato all'italiana, senza criteri di valutazione della professionalità ma con stipendio garantito. Purché ci sia capacità di ascolto più che fervore di predicazione, perché -come ha scritto benissimo sull'Avvenire, il quotidiano dei Vescovi, Marina Corradi - "fa tremare l'idea che si possa anche solo pensare di portare nei consultori la veemenza che alcuni usarono nella battaglia del referendum abrogativo della legge 194". In ogni caso, lo sappiamo, il numero degli aborti potrà essere sì ridotto, ma non certo cancellato. E, al di là del giudizio sulla legge 194, resta il fatto positivo che nel corso degli ultimi venti anni fra le italiane il numero degli aborti si è dimezzato. Merito di una consapevolezza maggiore sulla scelta di abortire e sulle sue conseguenze, delle condizioni di vita migliori, di una cultura sessuale più matura, della diffusione dei contraccettivi. A proposito della contraccezione: resta in me lo stupore sull'intransigenza della Chiesa contro la diffusione di questo che è il principale strumento per ridurre gravidan

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