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Alessandro Di Battista, l'eroe del no a tutto tentato dal ritorno in Parlamento

Claudio Querques
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Se un giorno il M5S dovesse frantumarsi e scomparire, Beppe Grillo tornare a fare il comico a tempo pieno e Giuseppe Conte l'avvocato, il popolo grillino potrebbe sempre contare su lui: Alessandro Di Battista, detto Dibba. Il Cincinnato della porta accanto. Mentre tutti si occupavano di «piccole» cose, il Covid, la guerra in Ucraina, la crescita del Pil, la disoccupazione giovanile galoppante, il divario Nord-Sud e l'inflazione, lui andava oltre. Puntava il binocolo fuori dal Grande raccordo anulare. È fatto così, Dibba, «non c'è che la Patagonia, la Patagonia per lenire la mia immensa tristezza», scriveva del resto lo scienziato e filosofo francese Blaise Cendrars. Ed eccolo allora, zaino in spalla, moglie e passeggino al seguito. Lampedusa assediata, l'ex Ilva che chiude, l'Alitalia fallisce? Quisquilie. Il nostro Bruce Chatwin continua a inviare dal Sudamerica i suoi resoconti gitani. Sporcarsi le mani? Macché, lasciamolo fare a Barbara Lezzi, Carlo Sibilia, Stefano Patuanelli, Gigi Di Maio, «...'sta ggente qui».

Ai tempi del Conte bis, quando l'amico Gigino teorizzava l'uso della cravatta e lui postava foto da Gaza, gli proposero di fare il ministro. Se avesse accettato, un dicastero lo avrebbero dato anche alla Boschi. Così che a rimetterci fu anche l'ex ministra renziana. L'Italia può attendere - Dibba pensò - mentre faceva e disfaceva valigie. L'infanzia non semplicissima, l'esuberanza del padre Vittorio, soprannominato Littorio perle simpatie dichiaratamente ducesche, («sono un fascista-liberale», rivendica Dibba senior), il diploma al Liceo della Farnesina, la laurea al Dams di Roma Tre, il Master a «La Sapienza», i problemi economici dell'azienda del padre «costretto» a far lavorare in nero un dipendente, il volontariato nel Terzo settore con le prime esperienze in Sudamerica, l'autostop con il cartello «sou de Roma e vou pra Espanha».

Tutto questo e altro ancora è il magnifico mondo di Dibba. Fino alla svolta: l'incontro con il guru-fondatore Gianroberto Casaleggio, la proposta di scrivere un libro e i primi meetup, «ci incontravamo in un bar alla Tiburtina per far eleggere un nostro consigliere in Municipio. Tre anni dopo sbarcavamo in Parlamento con il 25% dei voti». Per chi è nato 10 anni dopo il '68 potrebbe essere il sogno che si realizza. Con poco più di 300 crocette di lapis entri alla Camera. Festeggi in un pub a due passi dal commissariato Esquilino. Con te brindano anche tre agenti di polizia (di passaggio, in borghese e a fine turno). No trivelle, no Tav, no Tap. La situazione cambia. Il raggio d'azione che prima partiva dalla Collina Fleming ora comprende l'intero Globo terracqueo, Columbia, Guatemala, Palestina, Russia. Quando qualcuno fa il suo nome per candidarlo al Campidoglio stessa stizzita reazione. Vogliamo mettere i cinghiali, gli autobus che bruciano, la monnezza nei cassonetti con i reportage dalla Transiberiana? Pensa sempre alla grande, Alessandro. Ma se c'è da twittare «Te vojo bene Virgì» lui non è tipo che si tira indietro. Anzi. L'importante è andare controcorrente, farsi notare. Dicono che la Raggi è un «devasto»? Lui la difende ma poi se ne va. Ecco: la principale accusa che gli ex colleghi gli hanno sempre rivolto è di essere- tradotto dal vernacolo- «un paravento». Uno che al momento giusto se la squaglia, «fa lo splendido». Ma come si fa mentre si è alle prese con i problemi di tutti i giorni, la città che si allaga, le buche, gli ingorghi, a leggere il tuo collega che scrive "...presi il treno per La Plata...» etc, etc a non perdere la Trebisonda? Bisogna mettersi nei loro panni per capire perché Di Battista Alessandro è uno che piace alla gente che piace ma non ai suoi ex colleghi. Volare sopra il deserto, fotografare l'interno di una «estancia colonial», sono le grandi passioni di chi fa il viaggiatore. Ma se da lì cannoneggi, dai le pagelle ai giornalisti, concedi patenti di libertà, ti metti sul piano di Assange e Navalny, salvi chi parla bene dite e bocci gli altri, allora c'è qualcosa che non va. Attivista politico, certo. Dibba ci aveva provato. Per sprovincializzare il MoVimento era partito con Di Maio per portare solidarietà e fratellanza ai gilet gialli francesi che mettevano a ferro e fuoco Parigi. Roba che ancora oggi Macron stenta a credere che uno di quei due scellerati era il nostro attuale ministro degli Esteri. Sono fatti così i grillini mutuati in ex grillini. Di Battista 1,5 milioni di follower ma solo 71 seguiti su Facebook - è sopravvissuto a se stesso e alle metamorfosi dei colleghi, e di questo gliene va dato atto. La presa di distanza, la lettera a Conte, la polemica con l'Illuminato per quella definizione di Draghi grillino. Per gli avversari è rimasto un bersaglio mobile. Per i fedelissimi l'ultima enclave, l'Arcadia, il populismo allo stato puro, la campagna elettorale intesa come «mercato delle vacche», un mix di «programmi inesistenti», «natiche ricoperte di vinavil», «facce come il c...o».

Con una deroga ora potrebbe tornare e candidarsi, (Conte e Grillo permettendo). Tanto per cambiare, tra un post da Vladivostok e uno da Ivolgiskij Datsan, il monastero dei buddisti russi, Dibba il giramondo se l'è presa intanto con il suo ex compagno di viaggio «Giggino Di Vano». Di lui dice: «Chi conosce il fanciullo lo evita, trasformista, disposto a tutto, arrivista, incline al più turpe compromesso pur di stare nei Palazzi». E anche su quel grido, «Onestà! Onestà!», l'ex deputato romano ha avuto un mezzo ripensamento, «credevo fosse la caratteristica più importante per un politico - ha scritto - ma non lo penso più, dovrebbe essere un prerequisito per fare attività politica, chi decide di volere rappresentare il popolo italiano dovrebbe in primis avere coraggio". Già il coraggio. Se uno non ce l'ha mica se lo può dare, diceva Don Abbondio. Vero Dibba?

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