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Alessandro Orsini e l'anti conformismo commerciale: “Israele dittatura brutale”

Domenico Giordano
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Dal fronte ucraino a quello israeliano non cambia la strategia di Alessandro Orsini. Il professore che insegna sociologia del terrorismo alla Luiss ha impiegato qualche settimana dall’invasione russa, voluta da Vladimir Putin ai danni dell’Ucraina a fine febbraio dell’anno scorso, per comprendere e monetizzare una lezione fondamentale che sottende al funzionamento di tutta l’economia dell’attenzione: considerato che questa è sempre più scarsa, incostante ed evanescente, mentre le informazioni che riceviamo dalla rete, senza riuscire a processarle, sono sempre più abbondanti, è conveniente molto di più posizionarsi lunga la linea di faglia dell’anti-conformismo. Anzi, più saremo propensi a cavalcare le praterie di una diversità di opinione, di una narrazione minoritaria e di rottura, tanto tanto più gli algoritmi delle piattaforme, nessuna esclusa, ci premieranno. Dove l’ambito premio è per l’appunto la nostra attenzione. Solo indossando l’elmetto per combattere tutte le versioni ufficiali, solo facendo il contro canto alle narrazioni ufficiali e allineate al politicamente corretto, ci sarà una possibilità concreta per superare il frangiflutti digitale e riuscire a guadagnarsi una nicchia di follower e di audience. Chi riesce a rompere il muro di cemento armato del rumore di fondo che si alza dalla rete, riesce a guadagnarsi una platea pronta ad ascoltarlo, incassa una credibilità che può spendersi a piacimento per la propria carriera, diventa l’oracolo di una tribù cognitiva pronta a difenderlo a spada tratta.

 

 

È questa la strategia che Orsini ha adottato e poi sistematizzato in questi diciotto mesi di conflitto russo-ucraino e che adesso, dopo l’attacco improvviso di ieri mattina lanciato da Hamas nella striscia di Gaza contro gli israeliani, ha immediatamente riproposto spostandola sullo scacchiere medio-orientale. Senza perdere un solo minuto, appena in rete sono arrivate le prime immagini dell’attacco, il professore ha pubblicato sui diversi canali social una serie di post per presidiare con la baionetta tra i denti la linea di faglia: «Il governo Netanyahu - ha scritto su X e Facebook - è una delle dittature più brutali del mondo. Le dittature brutali causano sempre la rabbia degli oppressi che esplode periodicamente in forme estreme» e in un altro post indirizzato ai direttori di alcune testate giornalistiche ha ulteriormente rincarato la dose: «Il problema della guerra in Palestina si risolve con il ritiro immediato e senza condizioni di Israele da tutti i territori occupati». Non è quello che avete sempre «proposto per porre fine alla guerra in Ucraina?».

 

 

Questo costante lavoro a supporto di un posizionamento dell’anti-conformismo, pur in presenza di una iniziale buona fede accademica, gli ha consentito però di costruire nel tempo un brand personale che non ha nulla a che vedere con l’attività di ricerca universitaria. Nascono così i tour teatrali, le ospitate nei talk televisivi, i libri, le rubriche sui media mainstream o gli inviti alle convention di ogni tipo. È la teoria dell’ice bucket challenge, che nel 2015 fece impazzire i social guadagnando l’attenzione di milioni di follower in ogni parte del mondo, applicata alla geopolitica e alle relazioni internazionali. Non tanto e non solo per un ideale pedagogico, ma forse principalmente per aiutare la crescita del proprio brand commerciale.

 

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