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Le femministe attaccano Giorgia Meloni ma restano zitte sulle giovani iraniane

Riccardo Mazzoni
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È desolante lo spettacolo con cui le femministe ideologiche - un composito mondo di intellettuali, influencer e attrici in cerca di visibilità – stanno salutando l’approdo a Palazzo Chigi della prima donna nella storia della Repubblica. Una mobilitazione tanto grottesca quanto volgare, con la propagazione seriale sui social di un cane che fa pipì sulla faccia della futura premier, e condita da motivazioni stupefacenti come «lei pensa al maschile ed è pronta a sostituire la cultura patriarcale con un matriarcato altrettanto violento». Per cui «siamo costrette proprio dall’essere donna a detestarla». Anche perché è «la leader di un partito, Fratelli d’Italia, maschilista fin dal nome», argomento in tutta evidenza molto scivoloso, perché mette in discussione perfino la legittimità dell’inno nazionale. Ma queste manifestazioni di basso folklore ricolmo di odio politico sono solo il corollario della radicata narrazione secondo cui quando vince il centrodestra la democrazia è in pericolo, e quindi Giorgia Meloni - marchiata non a caso con l’iniziale «M» come se fosse un’infamante lettera scarlatta - incarna, un secolo dopo, la riproposizione al femminile di Mussolini. Non siamo forse, bizzarra coincidenza della storia, all’immediata vigilia del centenario della marcia su Roma?

 

 

 

Tutto torna, nella visione distorta di queste avanguardie femministe, e non c’è nulla di nuovo nella loro battaglia contro una donna di destra e, invece, nel silenzio assordante con cui stanno assistendo alla rivolta delle giovani iraniane contro il regime islamico, nonostante una repressione sempre più spietata che colpisce indistintamente ogni comportamento non conforme a un’interpretazione arcaica dei precetti religiosi, le cui prime vittime sono proprio le donne, sottoposte a regole mortificanti e insensate. Come l’hijab obbligatorio, baluardo ideologico del khomeinismo insieme alla dottrina che propugna la guerra al Satana americano e la distruzione di Israele. La protesta delle giovani iraniane non è affatto, dunque, solo una lotta simbolica, ma un colpo assestato a uno dei pilastri identitari del regime. Ma è una battaglia che non scalda il cuore delle femministe di oggi, in perfetta continuità con quanto accadde allo scoppio della rivoluzione islamica, quando il velo femminile diventò improvvidamente non una limitazione della libertà, ma il simbolo stesso della resistenza al «dispotismo monarchico» dello Scià deposto e all’«imperialismo americano». Dall’Occidente nel ‘79 partirono alla volta di Teheran numerose femministe, tra cui l’americana Kate Millett e, da Parigi, Simone de Beauvoir, che avrebbe addirittura presieduto un «Comitato Internazionale dei diritti delle donne». L’unica voce ad opporsi a quel dilagante conformismo antioccidentale fu Oriana Fallaci, che durante l’intervista poi passata alla storia si strappò il velo davanti a Khomeini, rischiando l’arresto, e la storia le diede subito ragione, perché il regime mostrò il suo vero volto non solo con l’introduzione del hijab obbligatorio, ma con la lapidazione pubblica delle adultere e la perdita di ogni diritto civile per le donne.

Quarantatré anni dopo, l’atroce assassinio di Masha Jina Amini per mano degli agenti della polizia morale rappresenta il culmine di decenni di tirannia, e le proteste già costate decine di morti dovrebbero scuotere le coscienze di tutti, soprattutto di chi ha fatto della difesa delle donne la sua missione sociale. Ma, a parte qualche documento formale di solidarietà, non si percepisce nel femminismo militante la ferma volontà di sostenere la rivolta iraniana contro il velo: intellettuali, influencer e attrici di sinistra preferiscono infatti riversare la loro indignazione non sull’ayatollah Khamenei, ma sulla leader di Fratelli d’Italia, e stanno preparando l’assedio a Palazzo Chigi invece che all’ambasciata di Teheran, in nome del velo ideologico che portano da sempre.
 

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