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Prostituirsi per legge in una casa chiusa

Prostituzione

Sempre a caccia di nuovi balzelli i politici rilanciano la liberalizzazione (a pagamento) dei «sex workers»

Antonio Angeli
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Ci provano un'altra volta: non c'è legislatura che non abbia la sua proposta di legalizzazione della prostituzione e l'attuale non fa eccezione. Da quando, nel 1958, il «mestiere più antico del mondo», è stato bandito (ma non cancellato) dal Belpaese, in tanti si domandano come venne in mente a quella Merlin lì di far sparire un'attività così difficile da controllare. Ma facile da tassare. «La prostituzione in sé non deve essere ritenuta un reato - spiega la senatrice Pd e vice presidente della commissione Lavoro, Maria Spilabotte - e chi decide liberamente di prostituirsi in casa deve poterlo fare». E su questo si basa il suo disegno di legge attualmente all'ordine del giorno delle commissioni riunite Affari Costituzionali e Giustizia di palazzo Madama. Ora chi esercita la professione viene definito sex worker: donne, uomini o transessuali. A 58 anni dall'approvazione della Legge Merlin, che ha messo fine alle case di tolleranza, occorre prendere atto, scrive la senatrice Pd nella relazione al provvedimento, che il fenomeno ha subito un'evoluzione dal punto di vista sociale, economico e delle implicazioni giuridiche, al punto che «è ormai tempo di porre rimedio alla confusione e alle gravi contraddizioni che la legge presenta». «Sia la legge che il codice penale - aggiunge la senatrice Pd - fingono di ignorare giuridicamente la prostituzione, ma di fatto ne consentono l'esistenza, determinando effetti in larga misura opposti a quelli che la stessa legge Merlin si proponeva e consentono l'esercizio della prostituzione in regime di apparente clandestinità, che però è divenuta di evidente aggressività, al punto da creare anche gravi problemi di ordine pubblico». La prostituzione, aggiunge, resta una «piaga» della società e negli ultimi anni ha cambiato natura con «migliaia di schiave del sesso. Ragazze giovani, troppo spesso minorenni, che quotidianamente vengono sequestrate con la forza e vendute all'asta per poi approdare sui marciapiedi. Tratta di esseri umani, riduzione in schiavitù, sfruttamento della prostituzione sono aspetti terribili di questo fenomeno che noi intendiamo contrastare fermamente». Allora «si tratta - continua la senatrice Pd - di combattere ogni tipo di sfruttamento, ma al contempo di regolamentare l'attività di coloro che scelgono volontariamente di prostituirsi, anche costituendo cooperative di sex workers, assicurando loro gli stessi diritti e doveri degli altri lavoratori, dall'assicurazione sanitaria e previdenziale al pagamento delle tasse. Scegliere di non affrontare questo problema significherebbe solo favorire indirettamente la malavita». Ai due elementi portanti (decriminalizzazione dell'adescamento e del favoreggiamento), la legge incoraggia «l'individuazione di regole minime che indichino dove si può e dove non si può esercitare», la prostituzione. In questo senso la legge si affida alla «forte assunzione di responsabilità degli amministratori locali per individuare», ad esempio, le «aree verso le quali incoraggiare il trasferimento dell'esercizio della prostituzione». Non veri e propria quartieri a luci rosse, ma zone «che siano nello stesso tempo lontane dagli occhi di persone che non vogliono assistere al mercato del sesso, sicure per chi invece le vuole frequentare». La legge in più prevede «misure volte a favorire il reinserimento sociale delle donne che vogliono uscire dalla prostituzione». Per esercitare l'attività occorre un'autorizzazione dalle Camere di commercio, una certificazione facoltativa di sana e robusta costituzione, mentre, all'articolo 7 è previsto come obbligatorio l'uso del profilattico, anche se, osserva Spilabotte, è un obbligo di «difficile rilevazione da parte degli organi di controllo», ma rappresenta un fondamentale presidio per la prevenzione e la trasmissione di malattie sessuali. La proposta ipotizza inoltre che il «costo semestrale dell'autorizzazione, di 6.000 euro per l'attività full-time e 3.000 per quella part-time, rappresenta un giusto costo, considerando che su centocinquanta giorni lavorativi si pagherebbe una cifra di circa 20 euro al giorno che è già al disotto del prezzo medio per prestazione stabilito in almeno 30 euro».

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