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di Gabriele Antonucci Stasera la Basilica di Massenzio si tingerà di giallo con la presenza dell'«ingegnere del thriller» Michael Connelly, ospite speciale della penultima serata del Festival Letterature insieme al nostro Marco Malvaldi.

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Secondoil New York Times, ha venduto 50 milioni di libri in tutto il mondo ed è stato tradotto in 39 lingue. Numeri impressionanti che Connelly deve in buona parte al suo fortunato alter ego Harry «Hieronymus» Bosch, l'inarrestabile detective del Dipartimento di Polizia di Los Angeles, protagonista di 16 dei suoi 21 libri finora pubblicati. Anche il recente «Il respiro del drago», edito da Piemme e già bestseller in Italia, ha come protagonista il detective che deve il suo nome al grande pittore fiammingo Hieronymus Bosch. Il libro esplora questa volta il lato più vulnerabile di Harry Bosch, coinvolto sia nel ruolo di investigatore che di padre, che lo conduce da Los Angeles a Hong Kong. Abbiamo incontrato lo scrittore americano alla Casa delle Letterature. Alto, capelli e pizzetto canuti, camicia e jeans blu, gli occhialini tondi che non nascondono lo sguardo profondo e disincantato di chi ha visto i crimini più efferati di Los Angeles, nel corso di dodici anni di cronaca nera. Connelly, quanto c'è dell'esperienza di giornalista nei suoi romanzi? «È buffo, sono passati tanti anni da quando ho smesso di fare il giornalista, eppure mi è rimasto lo stesso atteggiamento del reporter di cronaca nera. Alcuni degli istinti e delle procedure del mio precedente lavoro li ho portati nei miei romanzi: vado sul posto, osservo ogni singolo particolare, parlo con i poliziotti e prendo appunti. Ho un forte ricordo di quel periodo, spero di averlo raccontato bene nei miei libri». Come nasce l'ispirazione per un nuovo romanzo? «Spesso nasce dopo aver ascoltato dal vivo una storia vera da uno dei detective di Los Angeles, con i quali sono rimasto in contatto dopo aver lasciato il giornalismo. A volte capita che un particolare o un personaggio colpiscono la mia immaginazione e da lì scattano i meccanismi che mi fanno venire voglia di raccontarla a modo mio, arricchendola con la fantasia». Non è faticoso raccontare ogni giorno storie di crimini e di omicidi? «Lo era di più quando facevo il cronista. Oggi posso distaccarmi dagli orrori della realtà perché so che si tratta solo di finzione. Mi sono occupato di cronaca nera per tanti anni ed è un lavoro che ti logora, perché vedi ogni giorno le cose peggiori che possano capitare agli uomini. Ho iniziato allora a scrivere romanzi gialli a tarda sera. È stata una specie di terapia, che mi ha aiutato a superare ciò che vedevo di giorno». Com'è nato il personaggio di Harry Bosch? Che cosa lo lega al pittore? «Ci ho messo un po' di tempo per trovare un nome che mi dicesse qualcosa e che avesse una qualità metaforica. Il personaggio di Bosch è nato nel 1992, quando Los Angeles era in piena rivolta e la situazione stava sfuggendo di mano alle autorità. Così mi tornò in mente questo pittore, Hieronymous Bosch, che avevo studiato all'università. Tutti i suoi quadri descrivevano un mondo andato in rovina, il peccato e il caos. Mi sono detto che sarebbe stato il nome giusto perché negli Usa Bosch è un pittore poco conosciuto. Magari qualcuno avrebbe potuto capire il riferimento e chi non era in grado di capirlo poteva esserne incuriosito». Per quale motivo Bosch è entrato nel cuore dei lettori? «Il suo successo è un mistero anche per me. Se devo descriverlo con un solo aggettivo, penso che quello giusto sia "inarrestabile". Il suo, più che un lavoro, è una missione e nessuno lo può fermare. Poiché ognuno di noi desidera di essere inarrestabile nel perseguire i suoi obiettivi, si tratta di una qualità che lo rende vicino alle persone, che vorrebbero essere come lui». La noia è il carburante o la tomba della creatività? «Credo che la noia ci assalga solo quando non si ha un progetto preciso. Il mio trucco del mestiere, per ritrovare slancio, è continuare a scrivere e a raccontare storie, anche se apparentemente non ne ho voglia. Se mi lasciassi vincere dalla noia, probabilmente non riuscirei più a fare ciò che amo».

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