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Roma all'assalto di Mediobanca. Ecco tutti i segreti del risiko bancario tra Caltagirone e Del Vecchio

Angelo De Mattia
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Si potrebbe parafrasare il famosissimo «Graecia capta...» per commentare la decisione del Gruppo Caltagirone che ha il 2,88 del capitale di Mediobanca di aggiungervi il 2,175 in opzioni per accingersi a superare il 5 per cento. Da Roma «capta» dalle banche aventi sede al Nord si parte per concorrere alla conquista di quello che un tempo, «ferum victorem», era il santuario del credito e della finanza, Mediobanca, appunto, benché essa oggi non sia più l’Istituto unico, per l’esclusività dell’assetto istituzionale e delle possibilità operative, dell’epoca del demiurgo Enrico Cuccia. La partecipazione di Caltagirone evoca, ma non per una congiunta iniziativa, quella della Delfin di Leonardo Del Vecchio che ha dato il primo scossone alla tradizionale compagine proprietaria di Mediobanca proponendosi, autorizzato dalla Vigilanza unica, di arrivare, come sta operando, al 19 per cento del capitale dell’Istituto stesso. Ma si sostiene che la Delfin abbia assicurato che il suo è un mero investimento finanziario per cui non sarebbe interessata a intervenire nella governance della banca. Quanto ciò sia rispondente al vero e, se eventualmente imposto dalla Vigilanza, possa essere fondatamente sostenuto, confliggendo con i diritti dell’azionista e, in definitiva, della proprietà, è ancora da verificare.

 

 

Caltagirone non ha comunque questo problema, almeno nella situazione attuale. D’altro canto, sarebbe un fatto enorme se la Vigilanza si protendesse fino a fare una cernita degli azionisti tra chi può e chi non può esercitare i propri diritti e, a questo fine, stabilisse pure i limiti di possesso al di là di quelli fissati dalla normativa primaria. In ogni caso, posto che questi acquisti portano aria nuova in un contesto che sembrava ispirato al «quieta non movere», ora occorre chiarezza, anche per evitare che le cronache si ingolfino di pagine su supposizioni, retropensieri, fantafinanza. Fin qui, tra gli osservatori, una certa prevalenza l’hanno coloro i quali affermano che, per le due descritte partecipazioni in Mediobanca, bisogna guardare alle Generali e, innanzitutto, all’assemblea del prossimo anno quando verranno a scadenza gli organi deliberativi e di controllo del Leone. Mediobanca, infatti, partecipa alla suddetta Compagnia con il 13 per cento circa, mentre Caltagirone è il secondo azionista con circa il 5 per cento e Del Vecchio ha il 4 per cento circa. Lo statuto del Leone prevede che la lista dei nuovi componenti degli organi sia formata dal consiglio di amministrazione uscente. È un caso di autocefalia - a metà strada tra uno schema dinastico e la cooptazione di se medesimo - che al più potrebbe andar bene nelle «public company» vere e proprie, non in quelle che, come le Generali, tali si sono definite fino a qualche tempo fa, ma che nella sostanza tali non sono.

 

 

Se fosse questa una delle ragioni dei possibili contrasti, che vedrebbero, tra l’altro, Caltagirone dissenziente sull’applicazione della norma statutaria, sarebbe opportuno trarne le conseguenze e agire in via interpretativa-applicativa per una diversa soluzione ovvero emendare lo statuto. In sostanza, ciò che si chiederebbe risponderebbe adeguatamente all’esigenza di una democrazia societaria rimettendo agli azionisti la formulazione di proposte per il rinnovo della governance. Ma dovrebbe essere chiaro che di ciò si tratti, anche se l’iniziativa mirasse, nella sostanza, a sottoporre al vaglio pieno degli azionisti l’amministratore delegato del Leone, Philippe Donnet, ai fini della decisione del rinnovo o no nella carica. Ma, approfondendo, non potrebbe essere solo questa la finalità delle partecipazioni della Delfin e del gruppo Caltagirone in un contesto in movimento nel quale, di volta in volta, viene menzionato come possibile partecipante a un riassetto che coinvolga Generali e Mediobanca pure l’Unicredit, quando non si ipotizzano operazioni parziali che riguarderebbero anche Banca Generali. È chiaro che le aggregazioni, a maggior ragione quando coinvolgono soggetti bancari e assicurativi, debbono rispondere all’esigenza, trattandosi di banche, di meglio tutelare il risparmio e più efficacemente sostenere l’economia, cosa che non è in contrasto, anzi è la base, per la crescita di valore per l’azionista.

Insomma, appare ineludibile l’esigenza di chiarire, informare e colloquiare, su questo tema, con il mercato. Le Generali restano ancora il «gioiello» dei decenni passati. Finora non hanno voluto, però, prendere atto dell’evoluzione a livello europeo e internazionale e mettere mano finalmente a un adeguato aumento di capitale che darebbe alla multinazionale italiana, accanto al rafforzamento della sua stabilità, la possibilità di un maggiore protagonismo e di più ampie possibilità operative nello scenario globale. C’è voluto tempo perché diversi argomenti e problemi evidenziati sin dalla presidenza Geronzi dieci anni fa venissero affrontati e risolti. Anche per i «colossi», se tale si può definire il Leone di Trieste, sta suonando la campana. È importante, innanzitutto, avvertire questo suono e non far finta che si tratti solo di un sogno, cercando ancora di adagiarsi sugli antichi allori.

 

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