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Non bastava il coronavirus. Pure lo Stato che torna padrone

La politica non vede l'ora di rimettere le mani nell'economia. E la crisi sanitaria per il coronavirus è l'occasione

Marco Gorra
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Non aspettavano altro. Ancora l'emergenza sanitaria doveva iniziare ad affondare i denti nella carne - già abbastanza martoriata di suo - dell'economia italiana, che loro si accalcavano per rispondere al richiamo della foresta. Loro sono i politici, per una volta a ragione da mettere tutti nello stesso mazzo; la foresta che chiama è l'intervento statale in economia, dogma bipartisan mai abiurato dalle classi dirigenti che si sono succedute alla guida del Paese e mai come di questi tempi tornato in auge. L'ultimo ad invocare l'ingresso dello Stato nelle aziende è stato ieri il vicesegretario del Pd Andrea Orlando. Ma prima di lui c'era già una fila lunga come nemmeno fuori dai supermercati a marzo. Dalla consigliera economica di Palazzo Chigi Marianna Mazzucato («lo Stato imprenditore che decida dove investire») all'intramontabile Romano Prodi («Questa inattesa pandemia ha rimesso in gioco il ruolo dello Stato nell'economia»); dal commissario per l'emergenza Covid Domenico Arcuri («Economia di guerra? No, senso civico») all'ineffabile ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli («Lo Stato deve accompagnare l'imprenditore in questo sistema di sicurezza») e l'elenco potrebbe andare avanti ad libitum. Non c'è stato un politico, un editorialista, un maestro del pensiero che in queste settimane non abbia aggiunto la propria voce al coro del «più Stato», che di tutte le malattie trasversali dell'Italia si dimostra ancora una volta una delle più dure ad essere estirpate. A rendere ulteriormente indigeribile la cosa, soccorre tutta la retorica di complemento con cui viene infiocchettata la pratica. Pertanto, tocca sentirsi dire che se lo Stato vuole tornare a mettere le mani nell'economia italiana non è per placare il proprio atavico appetito ma è - ancora e sempre - per il nostro bene. Dalle macerie del coronavirus, ci dicono, nascerà un mondo nuovo, più giusto, più libero dalle soperchierie e dalle storture del passato (quel mondo nel quale noi «usciremo migliori», a proposito di bubbole). Un mondo sostenibile, green, con un nuovo modello di sviluppo, popolato da un'umanità reinventata e finalmente all'altezza della contemporaneità che dovrà vivere. E chi sarà mai a dover guidare con mano ferma questa epocale transizione? Ma lo Stato, ovviamente. Il quale Stato, dall'alto della propria benevola e disinteressata saggezza, non vede l'ora di mettersi a dirigere le operazioni, pianificando e dirigendo e indirizzando e programmando e organizzando. E la cosa strepitosa è che mai come ora l'idea incontra il favore dell'opinione pubblica. La quale passerà pure le giornate a insultare i politici inetti e corrotti ma poi non vede l'ora di affidare loro tutto l'affidabile. E sì che decenni su decenni di fallimenti dell'intervento pubblico in economia starebbero lì a suggerire di non ricascare nell'errore, ma tant'è. In tempi di crisi e di incertezza, è naturale cercare riparo e protezione in un'entità altra e superiore. Ed evidentemente lo Stato, nella percezione del popolo, questa funzione la assolve benone. Poi però ti guardi intorno e vedi come performa lo Stato laddove lo fa davvero, l'imprenditore. Vedi Alitalia, e vedi l'ennesimo salvataggio arrivato non più tardi di ieri (tre miliardi, con tanti saluti alle imprese che non vedono un soldo perché «non ci sono»). E lì forse qualche dubbio ti viene.

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