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Fisco, imprese italiane le più colpite nell'Ue

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Uno studio di Confindustria ci colloca al secondo posto nell'Unione per il carico sulle aziende

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E ciò nonostante negli ultimi 20 anni il livello della tassazione si sia alleggerito di circa il 9%. Ma il peso delle aliquote sui redditi delle società attive in Italia resta comunque «troppo elevato», tra i più alti nei paesi dell'Unione europea, secondo solo a quello della Germania. A fare il confronto dell'evoluzione delle aliquote nei vari peasi dell'Ue è stata la Confindustria che, nell'ultimo rapporto del Centro studi sulle tendenze dell'industria italiana, dedica un'intero capitolo alla competitività fiscale dell'Italia. Il rapporto conferma insomma quanto il Presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, va dicendo da tempo, da ultimo anche in Parlamento durante l'audizione sul dpef di venerdì scorso: il taglio dell'Irap (insieme alla riduzione del cuneo fiscale e contributivo) è la via maestra per recuperare il deficit di competitività accumulato dall'industria italiana negli ultimi anni. Un deficit che anche il Governatore di Bankitalia Antonio Fazio ha messo in cima alle cause del ristagno economico del Paese, definendolo addirittura «devastante». Sul taglio dell'Irap, almeno a parole, concordano tutti o quasi: più difficile sarà però passare ai fatti. La via stretta di una Finanziaria leggera, auspicata da ministro dell'Economia Domenico Siniscalco, sembra confliggere con i desiderata confindustriali. Se la manovra non dovrà oltrepassare i 10 miliardi, dove trovarne cinque per il taglio dell'Irap, si è chiesto in polemica con il titolare del suo dicastero, il vicemistro dell'Economia Mario Baldassarri in un'intervista pubblicata ieri da La Stampa? La ricetta giusta, secondo Baldassarri, sarebbe quella di una manovra da 25-30 miliardi. Fare «diversamente è impossibile - ha sottolineato il viceministro -. E comuinque non si possono fare cifre specifiche se prima non si è chiarita l'entità complessiva della manovra». C'è poi la Lega, che ha reclamato per bocca del ministro del Welfare Maroni un taglio il più ampio possibile, anche se «compatibile» con le risorse disponibili. Sarà dunque difficile che l'Italia acceleri lungo quel sentiero di allegerimento fiscale descritto da Confindustria per l'ultimo ventennio. Un sentiero iniziato solo nel 1998, in ritardo rispetto alle altre economie europee, con la riforma Visco. L'obiettivo della riforma, ricorda il Centro studi, «era la razionalizzazione del sistema fiscale, ottenuta tramite la riduzione del numero di imposte e la maggiore neutralità del fisco rispetto sia alle scelte di finanziamento che all'allocazione delle risorse». Guardando ai dati, infatti, tra la fine degli anni '80 e l'inizio dei '90 il peso delle aliquote è rimasto stabile al 46,4%, per poi imboccare la strada in salita, fino al 52,2% registrato nel 1995. Solo nel 2000 si nota un primo deciso calo al 41,3%. Il peso scende ulteriormente nel 2002, al 40,3%, e poi nel 2004, assestandosi al 37,3%. Complessivamente dal 1985 al 2004, il ridimensionamento è stato dunque del 9,1%. Nonostante la diminuzione, il 37,3% dell'Italia si confronta però con percentuali più basse nel resto dell'Unione europea: e cioè con il 34,3% della Francia (dove il calo in 10 anni è stato di un più consistente 15,7%), con il 35% della Spagna (rimasto invariato nel decennio) e con il 30% del Regno Unito (-10% dal 1985). Per non parlare del 29% della Finlandia, del 28% Svezia e del 12,5% dell'Irlanda, il paese che in assoluto penalizza meno dal punto di vista fiscale le proprie imprese. Unica eccezione negativa quella della Germania, dove nonostante il calo del 24,4% registrato nel ventennio, il peso delle aliquote sui redditi societari rimane al 38,3% (era ad oltre il 62% nel 1985). Ma è anche vero, fa notare Confindustria, che Berlino sta discutendo una riforma per sostenere lo sviluppo delle imprese tedesche.

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