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Morante e l'amore. Estasi e tormento di una scrittrice

ELSA MORANTE, AMATA E MISTERIOSA A 100 ANNI DA NASCITA

Dalle nozze con Moravia al rapporto con Visconti. Cinquant'anni d'Italia negli occhi della passione

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È una strana dichiarazione d'amore quella che Jean-Noël Schifano fa ad Elsa Morante («E.M. o La Divina Barbara. Romanzo confidenziale non finito», Elliot, pp.114, euro 16). Perché non sono amanti: Elsa (ma lui la chiama Elisa), scrittrice famosa e donna tormentata, è inchiodata ad un letto di una clinica romana, Villa Margherita, dopo un tentativo di suicidio (1983) ed una operazione che l'ha come prosciugata da ogni forza e le ha tolto ogni autonomia; Jean-Noël (ma lei lo chiama Giannatale), scrittore e intellettuale franco-siciliano, traduttore delle sue opere in francese, viene a visitarla, le sta accanto con tutto l'affetto e tutta la complicità possibili, tesse con lei un nodo di ricordi appassionati e accorati dove si rincorrono immagini e personaggi della Roma anni Sessanta e Settanta. Quelli che impressero sulla vita di Elsa segni indelebili. Non sono amanti, Elsa e Jean-Noël, ma è soprattutto d'amore e di disamore che si parla; e di quella sessualità convulsa, morbosa, bollente che era uno dei tratti della scrittrice: una specie di - profanissimo - «roveto ardente» che le incendiava sensi e cuore sin da quando era ragazzina. Un tumulto di influenze ereditarie, forse, visto che la madre di Elsa, Irma Poggibonsi, una maestra di origine ebraica, tanto colta quanto dotata di robusti appetiti sessuali, l'aveva concepita (1912) fuori dal matrimonio con Augusto Morante. Al pari degli altri tre figli: Aldo, Marcello, Maria. «Artefice» un fascinoso seduttore, Francesco Lo Monaco, carico di vitalità, di donne e di debiti, e destinato a morire suicida. Imperdonabile? Certo, Elsa si porta dentro sin da bambina la «vergogna» della nascita. Ma in particolare detesta ferocemente e raffigura con tratti sinistri il padre «legale», Augusto Morante, agente in un istituto di correzione minorile, brutto, livido e gobbo, nonché marito tradito e sbeffeggiato, che vorrebbe prendersi una «rivincita» con la «figlia». E lei - come racconta a Schifano, con linguaggio brutale, con una sincerità spudorata - prima quasi gli dà spago, poi lo respinge con furia. Ma basta questa energia ad arginare la piena della vita? E ad esorcizzare il dèmone che pesa sulla nascita? Con quei padri, con quella madre...È vero, Irma fa di tutto per strappare Elsa - che già da ragazzina si rivela intelligente, piena di inventiva, vogliosa di mettere sulla carta le sue fantasie - alle miserie del Testaccio, dove vivono. Nella sua arruffata sensibilità, Irma ha sempre cercato di proteggere Elsa dall'urto col mondo: ad esempio facendola battezzare. E per certi versi Elsa - lei, così istintivamente ribelle - è quasi tentata di assecondare una ricomposizione «borghese» del suo destino, quando si unisce a un intellettuale di agiata famiglia, Alberto Moravia, con tanto di benedizione di Santa Madre Chiesa. Lo scenario è esemplare: Roma, 14 aprile 1941, lunedì di Pasqua, Elsa ed Alberto si sposano. Nella Chiesa del Gesù, officiante padre Tacchi Venturi, il cosiddetto «uomo in nero», segretario generale della Compagnia di Gesù e più volte tramite tra Santa Sede e governo di Mussolini per favorire coabitazione e buoni rapporti. Il matrimonio tra Elsa e Alberto durerà fino al 1961. «Lui non mi amava», dirà Elsa. E tuttavia ecco che Alberto una mattina, del tutto inatteso, visto che da mezzo secolo si consacra alla scrittura dalle 8 alle 12, viene a farle visita. «Entra come un proiettile nella stanza, zoppica, si muove a strappi sconclusionati attorno al letto, un bronzo di Zadkin che il diavolo ha trasformato in marionetta». «Mi riconosci?», le chiede. E poi, a Jean-Noël: «Vedi, non mi riconosce. Mia moglie non mi riconosce. Non c'è più». E «soffia, soffre, si spazientisce», mentre - scrive Schifano - lei «si accanisce con più forza a chiudersi, ad accartocciarsi fieramente su di sé, le sue piccole dita di fanciulla si stringono come una pinza attorno alle mie». Elsa «non c'è più» per lui, per Alberto. Probabilmente perché per lui «non c'è mai stata». E Schifano, pur con tutto l'ossequio al venerato maestro, lascia dentro di noi l'immagine di un uomo «indifferente» e irritato, che non riesce a dire una parola che assomigli all'amore. O alla confidenza. Ce n'è tanta, invece, tra «Elisa» e «Giannatale». Spudorata, addirittura. Come quando la scrittrice, rievocando la relazione con Luchino Visconti, entra nel dettaglio dei loro giochetti erotici. Salvo poi scatenare contro il regista bisex che l'ha scaricata tutta la sua delusione di amante («cercavo di fargli perdere un po' il gusto dei ragazzi») e tutta la sua rabbia di femmina umiliata e offesa. L'ultimo incontro è a Venezia, a Piazza San Marco: Luchino è insieme a un gruppo di attori, collaboratori e amici, e non l'ha ancora vista; Elsa, che ha bevuto, urla il suo nome e tutta la piazza si volta verso di lei. Si volta anche Luchino che dice alla sua corte: «ci mancava solo la pazza». E lei gli replica con un gesto osceno. Scandaloso come un cuore «barbaro» che urta la vita: e non ce la fa e si spenge il 25 novembre 1985.

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