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di Mario Bernardi Guardi «Il porto delle nebbie»: un titolo che entra subito nell'immaginario grazie alla sua forza evocativa.

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Quiplasma la sua bella nicchia e qui resta. Da una generazione all'altra. Da settantaquattro anni. Tratto dal romanzo di Pierre Mac Orlan, «Le quai des brumes», («Il porto delle nebbie», Adelphi, traduzione di Cristina Földes, con un saggio di Guido Ceronetti e una postfazione di Francis Lacassin, pp.143, euro 16), compare nelle sale nel 1938 ed è il primo del sodalizio Marcel Carné - il regista, Jacques Prévert - lo sceneggiatore, Jean Gabin - il protagonista. Come dire romanticismo e nichilismo. Dolente tenerezza concentrata in un pugno di ore. Poesia di ciò che è intenso e struggente. Amore e morte. Tutti i colori del bianco, del nero, del grigio. Quarti di nobiltà assicurati per una storia amara su cui incombe il peso del fato. Scenario: il porto di Le Havre. Ma mai uno scenario reale fu più vaporoso. Lui è Jean (Jean Gabin), un duro dal cuore tenero, che ha disertato dall'esercito coloniale e vuole imbarcarsi per il Venezuela per evitare l'arresto. Lei, Nelly (Michèle Morgan), è una bella ragazza dagli occhi sognanti, che cerca di sfuggire ai tentacoli del losco tutore (Michel Simon). L'incontro avviene nel classico bar da bassifondi, dove umano, troppo umano e disumano si mescolano e le solitudini si danno appuntamento. Seguono appassionata notte d'amore e regolamento di conti con i cattivi. L'angelo disertore accoppa il demone. Ma anche lui ci resta secco. La storia disturbò i fieri custodi della morale. Ma ovviamente piacque ai libertari di sinistra e di destra. Come a Céline che già nel 1927, all'uscita del libro di Mac Orlan, era stato colpito dai suoi «eroi negativi»: individui senza rilevanza sociale, certo, ma con una verità livida e furente che lui quattro anni dopo avrebbe eletto a propria Musa nel «Viaggio al fondo della notte». Va detto, però, che colori e umori del film sono altra cosa rispetto a quelli del libro. Tanto per cominciare la storia non si svolge a Le Havre ma a Montmartre. Non c'è un «porto» ma un «quai» e cioè un «crocevia». Di destini. Cinque esseri umani, veri «cani perduti senza collare», che, due o tre anni prima della Grande Guerra, in una notte di neve e gelo, si incontrano in un locale di quart'ordine, luogo deputato per gli irregolari di tutti i generi con il comune contrassegno della povertà. Il bar si chiama «Lapin agile» e il proprietario, Frédéric, accoglie quella desolata umanità senza far troppe storie. E così in quella notte fatale vengono a scaldarsi nella sua taverna un giovane intellettuale declassato che passa da un mestiere all'altro, una ragazza dai non irreprensibili costumi che si inventa la vita giorno per giorno, un pittore tedesco che mette sulla tela presagi e allucinazioni, un soldato in attesa di disertare, un macellaio dall'aspetto equivoco che qualcuno ha inseguito e cercato di ammazzare, e che approda, tutto affannato, nel bar. A questo punto, il gioco è aperto. Chi vivrà vedrà. Già, ma «chi» vivrà? Questo nodo la storia lo scioglie, ma non aspettatevi una «morale». Non l'aveva in testa Pierre Mac Orlan quando scrisse il suo libro. A interessarlo erano il «cafard» - una sorta di malessere, di noia, di «spleen» che può illanguidirsi in malinconia o trasformarsi in ebbrezza distruttiva - e quello che lui stesso definì il Fantastico Sociale. E cioè l'elaborazione letteraria di quel mondo di emarginati che il «bello» della Belle Epoque proprio non lo avevano visto, che la «vie de bohème» la conoscevano soprattutto come fame rabbiosa e bisogno, una sera dopo l'altra, di trovare un letto dove riposare le ossa, e che di lì a poco sarebbero precipitati nella fornace della guerra. Di fronte a tipi del genere è inutile mettersi a sbandierare valori. L'unica «illusione» è la sopravvivenza - come e perché sopravvivere - con qualche spazio per i sensi e per ciò che resta dei sentimenti. Compresa la «dignità» che però è più una questione di istinto elementare che di etica personale. Dunque, una vita e un immaginario scandalosamente duri e spietati? Racconto quel che ho visto e che ho vissuto, diceva Mac Orlan che aveva ritagliato il personaggio di Jean Rabe, il disoccupato «intellettuale», sulle sue esperienze. Ivi compresi i vagabondaggi italiani come segretario e «correttore di bozze» di una scrittrice. Ivi compresa la magìa di un locale come il «Lapin Agile» - lo si trova ancora a Montmartre - al cui tavolo lui stesso si era seduto, insieme a Francis Carco, futuro autore di «Jésus-la-Caille». In una memorabile serata d'inverno tra il 1910 e il 1911, quando, travestito da cowboy (!), si era meritato la cena per aver intonato e interpretato la canzone dei battaglioni d'Africa. E magari gli avevano dato manforte altri clienti del «Lapin Agile». Tipi come Picasso, Modigliani, Vlaminck, Apollinaire, Max Jacob e tanti altri destinati alla gloria, ma allora noti soprattutto per la loro vita disordinata e la loro fame cronica, trascinata da una sera all'altra in gioioso ed agitato spirito goliardico. E fu proprio in una di queste sere arruffate che Max Jacob pagò quanto gli spettava, scrivendo sul libro d'oro di Frédéric Gérard, padrone del «Lapin», queste righe: «A bordo! Piano! A bordo!/ Libro di bordo,/ Parigi, l'onda che passa porta/ stasera alla tua porta/ o Taverniere del Porto delle Nebbie,/ il suo getto di schiuma...» Era nato un titolo, con tutto il suo corredo di fortune. Libertario, antimilitarista, pacifista il Mac Orlan del «Porto delle nebbie». Come lo sarà il Céline del «Viaggio», suo grande estimatore. Ma i nostri due anarchici ben presto li ritroveremo nella galassia degli scrittori «fascisti» e, a vario titolo e con diverso stile, «collaborazionisti». Di Céline, a questo proposito, si sa tutto: ma quanti sanno che tra i firmatari di un manifesto di intellettuali (Drieu, Brasillach, Bonnard, Maulnier, Maurras, Daudet, Gaxotte...) in appoggio a Mussolini, l'indomani dell'invasione dell'Etiopia, figura anche Mac Orlan? E che durante l'occupazione nazi la sua firma compare su riviste «collabo»? E che in quegli anni si consolidò l'amicizia con Céline, perché Pierre e Louis-Ferdinand e altri amici si trovavano insieme a chiacchierare e a fare sberleffi, tristi, amari sberleffi, all'Europa che, Hitler in testa, sprofondava nella decadenza? Ma, si ribatte, dai cinematografi di Vichy il disfattista «Porto delle nebbie» fu bandito a colpi di anatemi. Vero. Al moralista cattolico e conservatore maresciallo Pétain non poteva piacere. Ma nell'Italia del '43 il film veniva proiettato e le sue atmosfere da ultima spiaggia affascinavano la critica fascista e i «disperati» di Salò. E molti di loro nel '44 poterono anche leggere il libro, tradotto da Liliana Scalero, per le Edizioni Jandi-Sapi.

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