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Il film di Giordana racconta la strage del 12 dicembre '69 tra depistaggi, indagini e l'ombra dei servizi deviati

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Inizianocosì in Italia gli "anni di piombo" e la "strategia della tensione". Marco Tullio Giordana, regista appassionato di pellicole storiche, considerato l'erede di Francesco Rosi, evoca quel drammatico periodo nel film «Romanzo di una strage» (da venerdì distribuito in 250 sale da 01). Con il titolo preso in prestito da un articolo (poi immortalato negli «Scritti Corsari») di Pier Paolo Pasolini che, in «Cos'è questo golpe? Il romanzo delle stragi», svelava un anno prima di morire quanto bene sapesse i nomi dei responsabili di quello che venne chiamato golpe. Giordana realizza un film (in predicato per il Festival di Cannes) a tratti didascalico, scritto con Sandro Petraglia e Stefano Rulli, ispirato al libro d'inchiesta «I segreti di Piazza Fontana» di Paolo Cucchiarelli. Una pellicola basata sui verbali dei molti processi, su testimonianze, lettere di Aldo Moro e ipotesi dello stesso Cucchiarelli. Nel film interpretato da Valerio Mastandrea (nei panni del commissario Calabresi), Pierfrancesco Favino (nel ruolo dell'anarchico Pinelli), Fabrizio Gifuni (Aldo Moro), Omero Antonutti (Giuseppe Saragat), Giorgio Colangeli (Federico Umberto D'Amato), Luigi Lo Cascio (il giudice Paolillo), Laura Chiatti e Michela Cescon (rispettivamente mogli di Calabresi e Pinelli), ruotano politici di primo piano, servizi segreti, anarchici, estremisti di destra, repubblichini e giornalisti, tra cui Marco Nozza de "Il Giorno" (Thomas Trabacchi), unica voce fuori dal coro che criticò da subito la tesi ufficiale del suicidio di Pinelli. Ma sempre ci sono cose che non tornano, prove fragili (sugli anarchici Valpreda e Pinelli), personaggi che agiscono nell'ombra, neonazisti (Freda e Ventura) protetti dai servizi segreti deviati, prefetti che insabbiano e questori che mentono. Mentre l'anarchico Pinelli «cade giù» dalla finestra dell'ufficio di Calabresi, alla fine di un estenuante interrogatorio, dopo tre giorni d'insonnia e di fame. Il commissario Calabresi, vittima di una campagna d'odio a mezzo stampa (soprattutto ad opera di Lotta Continua), viene poi ucciso sotto casa; Giangiacomo Feltrinelli, editore di sinistra, è dilaniato dallo scoppio di un ordigno. Mentre uomini delle istituzioni si confrontano: l'allora ministro degli Esteri Aldo Moro intravede lo spettro del complotto e del depistaggio, mentre dialoga con il Presidente Saragat che sembra addirittura far parte di quelle vecchie trame oscure. Troppe morti, piste, indagini, ma dopo 43 anni ancora nessuna verità giudiziaria accertata. «Nel caso di Piazza Fontana - sottolinea lo sceneggiatore Sandro Petraglia - ci sono tante verità sovrapposte che finiscono per disorientare e ostacolare la comprensione dell'insieme. Il senso di questo film era proprio quello di dare ordine, un filo logico alle tante verità disponibili». Ma questa storia è «dedicata soprattutto ai giovani - sostiene il regista Giordana - A quei ragazzi che hanno la più assoluta ignoranza riguardo Piazza Fontana. E spero che lo vedano anche coloro che all'epoca c'erano, ma non hanno ancora acquisito una capacità di giudizio obiettivo. Come ammoniva Pasolini, occorre liberarsi dai pregiudizi: è per questa ragione che ho potuto fare questo film solo oggi e non 10 o 20 anni fa. La letteratura, il cinema e l'arte in genere, a differenza della cronaca che è asettica, riescono ad emozionare e un'informazione che emoziona non si disperde. Per quanto mi riguarda, non credo che il commissario Calabresi abbia buttato dalla finestra Pinelli, e non credo nemmeno che fosse presente quando accadde il fatto. Calabresi era una persona garbata, colta, lo so perché una volta interrogò anche me subito dopo l'occupazione del liceo Berchet: in sua presenza non sarebbero mai volati dei ceffoni. È probabile che gli schiaffi siano volati quando lui era uscito dalla stanza: e forse i poliziotti non volevano gettare Pinelli dalla finestra, anche perché avrebbero potuto vederli molti testimoni. Ma è probabile che abbiano conbinato un grosso pasticcio dal quale si sono dovuti poi difendere. E con le menzogne uscite quella notte dalla questura iniziò la distruzione dell'innocenza di chi in Italia credeva nella democrazia. Mi sembra di essere stato in questo film il più lontano possibile dalla partigianeria e dall'ideologia che mi risulta morta. Mario Calabresi ha riconosciuto al film il coraggio di rompere con i soliti luoghi comuni, ma è ovvio che a lui manca il padre e non può certo ritrovarlo nel film. Provo compassione per lui, nel senso che comprendo la sofferenza di chi ha perso un padre, che gli è stato strappato in maniera violenta. Raccolgo però i complimenti di Mario Calabresi sul film come qualcosa di prezioso». Per Mastandrea, che interpreta il commissario Calabresi, il suo ruolo è stato «la cosa più difficile che abbia mai fatto. Ha messo in discussione le mie convinzioni, mi sono interrogato come uomo e cittadino italiano. Le cose avvenute allora non sono così lontane da quelle accadute, ad esempio, a Genova, nel G8 del 2001: il meccanismo è lo stesso, come il risultato, che lascia l'impunità agli autori». Nessuna polemica da parte dell'attore con Mario Calabresi (direttore de La Stampa e figlio del commissario ucciso che in un articolo sul Corsera ha rivelato di non riconoscere suo padre nel personaggio interpretato da Mastandrea): «Volutamente non ho incontrato la famiglia Calabresi - ha affermato Mastandrea - per pudore e perché il personaggio era già delineato bene nella sceneggiatura. Non avevo bisogno di ulteriori dettagli, anche perché il film ha voluto mettere in luce soprattutto il profilo pubblico del commissario». Chi invece ha voluto conoscere i familiari è stato Favino, che nel film è Pinelli e ricorda «la grande umanità e gentilezza della vedova e delle sue due figlie».

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