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Teniamoci stretta la nazione

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Gli indipendentismi (come nella Lega) e le sovranità allargate minano un'idea che è alla base delle nostre democrazie

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Dovunquel'esperienza di nazionalità sia debole o inesistente, la democrazia ha mancato di attecchire. Infatti, in mancanza di fedeltà nazionale, l'opposizione diventa una minaccia per il governo, e il disaccordo politico non permette di creare un terreno comune. Tuttavia, l'idea di nazione è ormai dovunque sotto attacco, o denigrata come forma atavica di unità sociale, o addirittura condannata come causa di guerre e conflitti, a essere demolita e sostituita da forme di giurisdizione più illuminate e universali. Ma di preciso, cos'è che potrebbe rimpiazzare la nazione e lo Stato nazionale? E come potrà, una nuova forma di ordinamento politico, migliorare o conservare la nostra eredità democratica? Pochi sembrano preparati a dare questa risposta, e le risposte fin qui offerte sono state rapidamente nascoste dalla verbosità, un esempio delle quali è l'adozione, da parte dell'Unione Europea, della dottrina ecclesiastica della “sussidiarietà” volta a privare di poteri gli stati membri con la pretesa di garantirne l'esistenza. I recenti tentativi di trascendere lo Stato nazionale e trasformarlo in qualche tipo di ordinamento transnazionale si sono conclusi in dittature totalitarie come quella dell'ex Unione Sovietica, o in incomprensibili burocratismi come nel caso dell'odierna Unione Europea. Sebbene molti Stati nazionali siano frammenti sopravvissuti di imperi, pochi si augurano la restaurazione di ordinamenti imperiali come strada per il futuro dell'umanità. Dunque perché e a che scopo dovremmo privarci della forma di sovranità che ci è più familiare e dalla quale dipende così tanto della nostra eredità politica? Noi europei ci troviamo a un punto di svolta della nostra storia. I nostri parlamenti e sistemi legali hanno ancora sovranità territoriale. Corrispondono ancora ai modelli di insediamento storici che hanno permesso ai francesi, ai tedeschi, agli ispanici, ai britannici e agli italiani di definirsi “noi” e di sapere a chi si riferiscono con questo termine. Abbiamo ancora la possibilità di recuperare i poteri legislativi e le procedure esecutive che hanno formato gli Stati nazionali. Allo stesso tempo, è stato messo in moto il processo che esproprierà la restante sovranità dei nostri parlamenti e delle nostre corti, che annullerà i confini fra le nostre giurisdizioni, che dissolverà le nazionalità europee in una collettività storicamente senza significato, che non è unita né dalla lingua, né dalla religione, né dalle usanze, né da sovranità e leggi ereditate. Sta a noi scegliere se proseguire verso questa nuova condizione, oppure verso il passato, verso la consolidata e familiare sovranità dello stato nazionale territoriale. Allo stesso tempo le nostre élite parlano e si comportano come se non ci fosse nessuna scelta da compiere – come hanno fatto i comunisti all'epoca della Rivoluzione Russa. Queste élite si riferiscono a un processo inevitabile di cambiamenti irreversibili e, anche se a momenti sono pronte a distinguere fra un cammino “rapido” o “lento” verso il futuro, hanno (comunque) ben chiaro in testa il fatto che questi due cammini conducono a una sola e unica destinazione: la destinazione del governo transnazionale, sotto un sistema comune di leggi nel quale la fedeltà nazionale non avrà maggior significato del tifo per una squadra di calcio locale. (...). La mia tesi non è che lo Stato nazionale sia l'unica risposta ai problemi dei governi moderni, ma che sia l'unica risposta che sia stata messa alla prova. Certo, ci potrebbe venire la tentazione di sperimentare altre forme di ordinamento politico. Ma gli esperimenti su questa scala sono pericolosi, perché non c'è nessuno che sappia fare previsioni sui possibili risultati né che sappia come (eventualmente), tornare indietro. Le Rivoluzioni Francese, Russa e Nazista, sono state esperimenti audaci, ma ciascuno di questi casi ha condotto al collasso dell'ordinamento legale, all'omicidio di massa all'interno dei Paesi, e alla guerra verso Paesi esteri. Una politica saggia è quella di accettare gli equilibri esistenti, per quanto imperfetti, che si sono evoluti attraverso l'uso e l'eredità, per migliorarli attraverso piccoli aggiustamenti, non certo quella di metterli a rischio con cambiamenti su larga scala, di cui nessuno può veramente prevedere le conseguenze. Il criterio ispiratore di questa tesi è stato esposto prima di noi da Burke in Riflessioni sulla Rivoluzione Francese (1790) e la storia successiva ha confermato questa visione delle cose. La lezione da trarre è che dato che lo Stato nazionale si è dimostrato un'istituzione stabile di governo democratico e giurisdizione secolare, dovremmo cercare di migliorarla, di aggiustarla, anche di diluirla, ma certo non di gettarla via. Gli iniziatori dell'esperienza Europeista – sia chi se ne dichiarò profeta, sia coloro che cospirarono dietro le porte chiuse – condividevano la convinzione che lo Stato nazionale fosse ciò che aveva causato le due Guerre Mondiali. Gli “Stati Uniti d'Europa” sembravano loro l'unica ricetta per una pace duratura. Questa opinione non è convincente per due ragioni. La prima è che è totalmente negativa: essa respinge gli Stati nazionali per la loro attitudine alla belligeranza, senza fornire alcuna ragione certa per credere che gli Stati transnazionali saranno in grado di essere migliori. In secondo luogo identifica la normalità dello Stato nazionale attraverso le sue versioni patologiche. Come ha recentemente dichiarato Chesterton, condannare il patriottismo perché la gente fa la guerra per ragioni patriottiche, è come condannare l'amore perché alcuni amori conducono all'omicidio.

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