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di Gian Luigi Rondi Clint Eastwood e un personaggio discusso, discutibile e anche antipatico: J.

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Iltesto gliel'ha scritto Dustin Lance Black, sceneggiatore di "Milk", su Harvey Milk, noto attivista per i diritti civili. Là si davano spazi preponderanti ai temi sociologici, qui si fa lo stesso partendo addirittura dal 1919 quando il comunismo si era proposto negli Stati uniti come il nemico pubblico numero uno, ma l'accento più forte è sulla vita di quel personaggio al centro dell'azione, alternandovi attorno vari momenti indirizzati da una parte a dar rilievo, senza seguire la cronologia, agli aspetti poco noti del suo privato - i rapporti con la madre, con una segretaria, con un assistente - dall'altra privilegiando quei lampi quasi luciferini del suo carattere ossessionato dall'odio per il comunismo e dalla necessità di avere a disposizione tutti i mezzi e tutte le tecniche per combatterlo, combattendo nello stesso tempo la criminalità comune, a partire dalla data funesta in cui venne rapito il bambino Lindberg. Eastwood, alle prese con questa figura e con quella vita, ha costruito uno spettacolo di forte impatto visivo (la fotografia, spesso decolorata, è di Tom Stern) accentuato da una scenografia (del fido James L. Murakami) che in esterni e in interni riesce felicemente a far sentire il trascorrere del tempo, delle mode e del costume sia quando gli ambienti sono autentici sia quando sono rifatti in studio. All'insegna sempre di un realismo non certo di maniera. Hoover è Leonardo Di Caprio che ha accettato di proporsi tanto da giovane quanto quasi da vecchio, curiosamente forse più credibile in questa seconda fase tutto truccato. La madre è, con la classe consueta, Judi Dench. Alla segretaria dà il volto con garbo Naomi Watts.

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