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di Giovanni Marizza (dal capitolo «Egitto: fine del faraonismo») La longevità delle leadership africane e mediorientali è proverbiale.

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Bachirin Sudan comanda da 22 anni e Ben Ali in Tunisia era in auge da 24 anni, prima di venire estromesso dalla rivoluzione dei gelsomini. Anche Saddam Hussein era al potere da 24 anni prima di venire esautorato da Gorge W. Bush e lo stesso dicasi per Taya in Mauritania, anch'egli presidente da 24 anni quando fu licenziato da un golpe simile a quello con cui lui stesso andò al potere. Mubarak in Egitto è sul trono da 30 anni (...). Tuttavia non è solo questione di autoritarismo, ma anche di cultura locale. Dopotutto sono proprio le Costituzioni di quei paesi ad ammettere il presidenzialismo a vita, perché l'Africa privilegia la stabilità e preferisce la continuità all'alternanza. L'inizio del 2011 ha visto nascere varie rivoluzioni sulla sponda sud del Mediterraneo, a cominciare dalla Tunisia fino a raggiungere il paese più popoloso, l'Egitto (85 milioni di abitanti, 53% dei quali al di sotto dei 25 anni di età e 40% dei quali vivono con meno di due dollari al giorno). I precedenti storici che riguardano grandi movimenti popolari sulle piazze del mondo arabo e musulmano sono poco incoraggianti (...). Ma i sommovimenti odierni nel mondo arabo sono diversi, ricordano l'Europa degli anni Settanta quando i regimi autoritari di Grecia, Spagna e Portogallo caddero uno dopo l'altro. O il Sudamerica degli anni Ottanta, quando le giunte militari caddero in sequenza. Meglio ancora, assomigliano alle varie “rivoluzioni” colorate post-caduta del Muro di Berlino, con le quali hanno in comune le principali tre caratteristiche: quelle di essere popolari, pacifiche e laiche. In Egitto, in particolare, non è come nel 1977, quando il regime di Sadat raddoppiò il prezzo del pane causando moti popolari. Nell'Egitto di oggi l'ottandueenne presidente Mubarak comincia a vacillare il 25 gennaio 2011, giornata della polizia, trasformata dal popolo in “giornata della rabbia” proclamata su Twitter e Facebook. Il popolo che risponde al tamtam sui social network e che dà vita ad imponenti proteste (due milioni di dimostranti, 300 morti e 5.000 feriti, è la crisi peggiore dai tempi dell'assassinio di Sadat nel 1981) è lo stesso che un paio di settimane prima aveva risposto ad un sondaggio di opinione schierandosi così: 59% in favore degli islamisti e 27% con i modernizzatori (...). Quali potranno essere gli scenari futuri per il Mediterraneo? Inutile dilungarsi troppo, perché sono tutti possibili, dal migliore al peggiore con tutti quelli intermedi. Lo scenario migliore è che democrazia, diritti umani e tolleranza escano vincitori e i paesi del Nordafrica e del Medioriente si trasformino a breve in campioni di modernità occidentale. Lo scenario peggiore è che il caos in atto favorisca la presa del potere da parte dell'Islam radicale in tutti i paesi considerati, con conseguenze deleterie per l'esistenza di Israele a breve termine e, in prospettiva, anche dell'Europa stessa. (dal capitolo: «Libia: cosa accade e cosa accadrà»). Quanto sta accadendo nel Medio Oriente e nel Nord Africa in generale e in Libia in particolare è una sorta di gioco del domino, in cui la caduta della prima pedina provoca la caduta di tutte le altre. Ma è molto più complicato, perché le pedine non sono tutte uguali, hanno pesi diversi, non agiscono soltanto lungo una linea, bensì lungo una molteplicità di linee che si sviluppano non su un piano, ma in una specie di spazio tridimensionale. A complicare le cose il fatto che le pedine, una volta cadute, possono non solo rialzarsi, ma anche cambiare dimensioni. La prima pedina di questo grande immaginario domino si chiama prezzi alimentari. Se questi fossero rimasti bassi, nulla sarebbe accaduto. E invece a gennaio 2011 è successo che il Fpi, Food Price Index, (che riguarda pane, cereali, oli, grassi, latticini e riso) è aumentato per la settima volta consecutiva, raggiungendo i valori più alti degli ultimi vent'anni (...). E quella delle proteste pacifiche è la seconda pedina, abbattuta dalla prima. Curiosamente, i mass media italiani hanno parlato soltanto (e poco) di Tunisia, Algeria ed Egitto, con sporadici cenni a Marocco, Giordania, Yemen e Bahrein, dimenticando l'Africa subsahariana dove si stanno verificando fenomeni molto simili (...). E tutto questo abbatte la terza pedina, quella del fenomeno di emulazione. Solo dieci anni fa l'opinione pubblica libica non sapeva nulla di ciò che accadeva in Egitto o in Tunisia, ma oggi è cambiato tutto. La globalizzazione, la Tv satellitare, il telefono cellulare, internet, la posta elettronica e i social network hanno tolto ai governi il monopolio dell'informazione e oggi tutti sono informati su tutto in tempo reale e tendono a copiare ciò che si fa all'estero, soprattutto se si tratta di sollevazioni popolari. (dal capitolo: «Come i cambiamenti climatici influenzano la Geopolitica»). Viviamo in un mondo globalizzato e interconnesso: un evento verificatosi ad Amsterdam o a Città del Capo può far sentire le sue conseguenze nel giro di pochi giorni a Taiwan o a Brasilia. Per strano che possa sembrare, tutto questo non è una novità e i fattori climatici hanno già influenzato la geopolitica anche in passato. Esaminiamo tre esempi: uno del passato, uno del presente e uno del futuro. Un esempio del passato riguarda la sconfitta di Napoleone a Waterloo a causa di un vulcano che eruttò due mesi prima dall'altra parte del mondo, cosa di cui abbiamo già parlato. Fu un incredibile esempio di “globalizzazione” geopolitica ante litteram: un vulcano indonesiano che determina il nuovo ordine europeo. L'esempio del presente riguarda le pretese della Russia sull'Artico. Mosca ha cercato per lungo tempo di estendere il suo territorio nell'Artico e nel 2001 ha presentato un esposto all'Onu rivendicando 1,2 milioni di chilometri quadrati in quella fredda area (...). Il 2 agosto 2007, poi, sotto i ghiacci dell'Artico (...) Il batiscafo “Mir-1” si è immerso a 4.261 metri di profondità ha depositato sul fondale oceanico, nel punto corrispondente al Polo Nord (e pensare che un tempo la Russia ricercava i mari caldi!), una bandiera russa di titanio larga un metro e un contenitore con un messaggio che avverte che quel territorio è russo (...). Ma le pretese del Cremlino non trovano tutti d'accordo, anzi sono contestate da Canada, Stati Uniti, Norvegia e Danimarca (...). E arriviamo così all'esempio del futuro. È stato calcolato che per effetto di quanto sopra nel 2050 il livello dei mari dovrebbe innalzarsi di circa 25 centimetri (...) quanto basta per far sparire varie isole dell'Oceano Pacifico che costituiscono altrettanti paesi oggi rappresentati nell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

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