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Nei torbidi anni Sessanta la musica aveva poche o nessuna immagine: i cantanti erano dei volti sfocati, quando c'erano, sulle bustine stropiocciate dei dischi a 45 giri

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Inpochi sapevano che facce avessero i Pooh o quelli dell'Equipe 84. Elvis era conosciuto perché faceva i film e Nicola di Bari perché partecipava al Festival di Sanremo. Per gli altri buoio totale. Il primo raggio di luce arrivò con due macchine infernali: il Cinebox e lo Scopitone. Un raggio di luce, si diceva, ma molto pallido. Le due macchine, se pure in accesa concorrenza, erano sostanzialmente uguali: un enorme monolito di metallo, legno dipinto, stoffa e (poca) plastica sormontato da un piccolo monitor. Al suo interno uno sferragliante macchinario con alcune lenti e una piccola pellicola. In pratica dei juke box con uno schermo. Inserendo cinquanta lire (che negli anni Sessanta erano una piccola fortuna) si poteva sentire una canzone e si sarebbe dovuto vedere un filmino con il cantante che la intonava, di solito, mentre passeggiava su una spiaggia accennando timidi passi di danza. Condizionale d'obbligo perché era inutile concentrarsi e sguerciarsi: sul quel piccolo schermo non si vedeva un accidenti, specialmente se si era di giorno. Insomma, soldi buttati. E poi a che servivano le immagini? Nei successivi anni Settanta i dischi venivano ascoltati o alla radio (che, ovviamente, è priva di schermo) oppure in casa, durante le feste che erano pomeridiane (la sera si usciva poco) e frequenti, visto che, con soli due canali tv che, oltretutto, funzionavano solo poche ore al giorno, non c'era molto altro da fare nel tempo libero. Per ascoltare la musica, ovviamente, serviva qualcuno che mettesse i dischi: in quei famosi Settanta questa era la categoria dei disgraziati per eccellenza. I giovani ballavano, gli svelti o i lenti. Sia che ci si dimenasse, sia che si ballasse abbracciati (comunque mantenendo quei buoni venti centimetri di distanza di sicurezza), pensare ai dischi era una noia. Al compito venivano delegati nell'ordine: i secchioni (tanto non sapevano ballare); quelli brutti (tanto le ragazze non ci volevano ballare); i timidi e brufolosi (che così avevano una scusa per stare in compagnia). Ma la categoria dei mettitori di dischi si sarebbe presa la sua rivincita negli anni Ottanta. Quando finalmente arrivò la Febbre del sabato sera anche in Italia la postazione dei giradischi, una volta relegata in un angoletto buio e polveroso, divenne un podio glorioso e luccicante. Apparvero Awanagana, Jocelyn e Claudio Cecchetto e proporre dischi, magari conducendo una hit parade anche condita con due chiacchiere e qualche quiz, divenne una cosa da professionisti. Nasce il disc jockey che, come tutte le figure mitiche, ha una sua attrezzatura: una cuffia con grandi auricolari imbottiti, di solito appoggiata sul collo, con il filo che pende. Poi due giradischi ed eterni occhiali da sole. Il dj è una specie di dittatore che impone i suoi gusti musicali, incrocia, sovrappone, mixa. Insomma crea. L'ultimo stadio dell'evoluzione arriva con il vj, il video jockey. Ormai c'è la televisione, anzi, le televisioni. E la musica ha finalmente le sue immagini.

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