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La faccia feroce di Arafat

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Maè profondamente sbagliato ritenere che Arafat abbia commesso veramente tutti gli errori che gli si imputano: la sua azione politica pluridecennale si imperniò sempre su una visione islamista del confronto con Israele: lo Stato degli ebrei doveva essere cancellato dalla carta geografica del Medio Oriente islamico. La tattica poteva diversificarsi, ma l'obiettivo finale era la pulizia etnica dell'elemento ebraico dalla Palestina. La rivista dell'Olp, dopo la presa del potere da parte del raìs, riportò questa affermazione: "L'obiettivo dell'Olp non è quello di imporre la nostra volontà al nemico, ma quello di distruggerlo per prenderne il posto". Arafat non venne mai meno a questo imperativo, se non a parole di fronte ai suoi interlocutori occidentali. Erroneamente, per molto tempo, si è pensato che il leader dell'Olp fosse un nazionalista, dedito al fine di dare vita a uno Stato arabo-palestinese accanto a Israele; in realtà, il suo vero obiettivo, mai abbandonato, fu quello dello "sterminio del nemico e la distruzione del suo Stato", poiché "la sua convinta identità di rivoluzionario e di musulmano gli impediva qualsiasi forma di pragmatismo", ovvero egli era un leader islamico le cui concezioni della lotta politica contro gli infedeli, e in particolare contro gli ebrei, erano assorbite nel contesto ideologico-religioso del jihad. Così, è giusto dire che "i suoi modelli non erano i leader o i teorici nazionalisti arabi, ma le lotte dei primi musulmani per i quali era accettabile soltanto la vittoria totale sugli infedeli e sui crociati". Benny Morris, una volta capofila dei new historians israeliani, molto critici verso le ragioni stesse della nascita di Israele e verso la storiografia "ortodossa", oggi sta procedendo a "revisionare" le sue posizioni proprio alla luce della pratica del jihad perseguita da Arafat. (...). Il rifiuto di Arafat, in occasione dei negoziati di Camp David del luglio del 2000, aprì gli occhi a molti sulle reali intenzioni di Arafat e convinse Morris della malafede del raìs palestinese: "Il rigetto degli accordi di Oslo - scrive David Horowitz - anche come base per ulteriori negoziati, rivelava le finalità estreme della causa palestinese, che non potevano più essere confuse con un piano di coesistenza con uno Stato non-islamico, non-arabo nel Medio Oriente". Alla luce di queste nuove convinzioni, Morris oggi ritiene che la guerra del 1948 (la prima arabo-israeliana) non debba essere soltanto considerata come una tradizionale guerra tra due gruppi nazionali per la conquista del territorio, ma invece debba essere definita: "una guerra santa islamica". Secondo Morris, l'errore commesso finora dagli storici è stato quello di ignorare proprio l'ideologia che ha accompagnato, anzi sostanziato, la guerra degli arabi contro i sionisti, un'ideologia imperniata sull'odio: "Sono convinto che i portavoce arabi nel 1948 chiaramente ed esplicitamente parlassero di jihad". Il 1948, dunque, e le guerre successive combattute dagli arabi contro i sionisti furono guerre religiose, fondate su concezioni assolute, quindi non negoziabili perché trascendenti il piano politico; in definitiva, se per gli arabi la guerra del 1948 fu il primo atto del jihad contro Israele, per i sionisti, conseguentemente, fu una lotta per la sopravvivenza. Su questo aspetto decisivo Morris è stato esplicito: "La società ebraica israeliana rimane in gran parte laica e i valori in essa predominanti sono quelli democratici occidentali. Questi valori sono difficilmente compatibili con quelli autoritari e religiosi della società arabo-palestinese, che si sta spostando costantemente verso una sempre maggiore religiosità". Tale conclusione, se serve a spiegare l'impossibilità della creazione di uno Stato binazionale, auspicato da molti, è decisiva per compiere un passo in avanti nella definizione della questione: la "guerra dei cent'anni" tra arabi ed ebrei in Palestina, a partire dai primi insediamenti sionisti alla fine dell'Ottocento, non ha mai raggiunto un punto reale di compromesso perché dietro al contenzioso v'erano e vi sono tuttora due visioni opposte: quella religiosa, consistente nel rifiuto islamico della presenza dell'elemento ebraico in Palestina, se non nella forma tradizionale della sottomissione e del disprezzo, che si traduce nel jihad; e quella nazionalista ebraica, tendente a difendere lo Stato ebraico dalla distruzione da parte del nemico jihadista. (...). Dunque, il rifiuto arabo è radicale. Lo è sempre stato, perché l'idea stessa di una spartizione o della creazione di uno Stato binazionale, cioè il riconoscimento della presenza ebraica in Palestina in una condizione di parità, se non di superiorità, rispetto all'elemento islamico "è completamente estranea alla mentalità arabo-musulmana". Di più: è insopportabile. "Nel mondo arabo-musulmano - scrive Morris - non ci sono mai state strutture politiche binazionali o bireligiose. Ci sono soltanto delle entità politiche in cui gli arabi musulmani sono i padroni oppure, se in minoranza, in cui aspirano a ottenere la maggioranza e a comandare", per mezzo del jihad. Tale rifiuto è ancor oggi il leit-motiv di tutte le organizzazioni palestinesi, compreso Fatah, ritenuto erroneamente il movimento più moderato. Nel sesto congresso generale di Fatah, tenuto nel 2009 a Betlemme, la risoluzione finale ribadiva il dovere della lotta armata: "Questa lotta non finirà finché l'entità sionista non sarà eliminata e la Palestina non sarà liberata". (...). Tornando alla situazione attuale, v'è una reale differenza - si chiede Efraim Karsh, il più importante contestatore delle posizioni di Morris - tra le posizioni di Fatah e quelle di Hamas? "Nessuna delle due fazioni accetta il diritto di esistere di Israele; ambedue sono impegnate alla sua distruzione", conclude Karsh, con questo sottolineando con forza come il mondo islamico, senza distinzioni, rifiuti la presenza ebraica in Palestina. Il fattore religioso è dunque il fondamento stesso del rifiuto. (...). E poiché il jihad è una strategia universale messa in atto dal mondo islamico, ne consegue che il conflitto arabo-israeliano ha acquisito una dimensione che supera di gran lunga il livello locale, per divenire una guerra contro Israele come punto nevralgico del mondo degli infedeli inserito nel cuore del Medio Oriente islamico. (...).

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