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Addio Girardot musa di Salvatori e della Dolce Vita

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L'Alzeimheraveva svaporato la mente e con i ricordi il piacere degli anni passati, nel mondo scintillante del cinema quando era davvero scintillante. Annie Girardot è morta ieri, sfinita dalla malattia simile a un telo scuro sullo specchio, un velario che cancella l'identità. E invece il suo caschetto di capelli neri, il fascino minimale tipicamente francese lo rammentiamo tutti. È un'icona del periodo bello del secolo scorso, la Parigi glamour e intellettuale della Rive Gauche, la Roma ombelico del mondo, sirena della Dolce Vita, capitale del boom. Girardot, preparazione doc alla Comedie Française e plauso di Jean Cocteau («Il temperamento drammatico più bello del dopoguerra», disse dopo averla vista recitare), dovette provare un set italiano per sfondare. Forse Oltralpe l'appeal di Brigitte Bardot oscurava Annie, belle gambe e fisico asciutto. Invece il raffinato Luchino Visconti credette in lei, le affidò il ruolo della sensuale prostituta Nadia in «Rocco e i suoi fratelli». Il bel Alain Delon nella finzione si innamorava di lei. Era il 1960, il successo della pellicola divenne quello di Annie. E fu anche la svolta negli affetti. Renato Salvatori, il povero ma bello che nel film era Simone, uno dei fratelli di Rocco, fece la corte alla francese. Due anni dopo si sposarono a Parigi. Ma Roma, via Veneto, riempirono tante giornate dell'attrice, tante notti passate con i colleghi che i paparazzi fecero trasgressivi, osannati dal pubblico, in una parola divi. Lo charme con la testa della Girardot piacque a Monicelli, che nel 1963 la scelse per «I compagni». E piacque a Marco Ferreri che un anno dopo le mise a fianco Ugo Tognazzi nel provocatorio «La donna scimmia», grottesca demistificazione delle convenzioni matrimoniali. Poi Parigi reclamò l'attrice. E furono ruoli melodrammatici, come ne «Il vizio e la virtù» di Roger Vadim. O romantici, come «Vivere per vivere» di Claude Lelouch. Con il regista che più l'ha apprezzata («Tra le più grandi attrici del dopoguerra, il mio più bel ricordo di regista e di uomo», ha detto) girò uno dei suoi ultimi film «I miserabili». Non era la protagonista, ma vinse il Cesar, l'Oscar francese che aveva già conquistato altre due volte. E pianse davanti alla platea che la applaudiva confessando: «Il cinema mi è mancato. Follemente, perdutamente, dolorosamente». Perché sì, lei che era abituata a girare anche due pellicole l'anno, viveva come abbandono anche sei mesi fuori dal set. Gli ultimi film li ha interpretati con l'autriaco Michael Haneke. Nel 2002 «La pianista», nel 2005 «Niente da nascondere». Ma già non era più la Girardot. La mente cominciava a svanire e lei, consapevole, testimoniava lo smarrimento scrivendo di se stessa e della propria vita in «Partir, revenir», un partire e tornare faticoso nei ricordi. L'anno dopo la figlia, Giulia Salvatori, raccontava ne «La memoire de ma mere» la discesa nel buio di Annie. «Mia madre - diceva Giulia - non ricorda più che era un'attrice». Eppure ancora la macchina da presa indugiò sulla sua faccia. Era il 2008, le venne recapitato un copione, la storia di una donna affascinante che si decompone nella malattia. Un documentario per la tv sulla perdita della memoria. Annie firmò il contratto seduta in mezzo al letto, contornata dai suoi. Chissà se voleva girare davvero.

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