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Sepulveda, il romanzo leggero che non abbandona i ricordi

Santiago del Cile

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Eravamo quattro amici al bar. Luis Sepulveda deve essersi almeno un po' ispirato alla canzone di Gino Paoli per scrivere il suo «L'ombra di quel che eravamo» (Guanda, 14 euro). Storie frammentarie, spezzettate di quattro giovani comunisti che si trovano ad affrontare la resistenza. Chi resta comunista, chi si lancia nei socialisti, chi sceglie altre strade. Anzi, un po' tutti, dopo esser stati sostenitori di Salvador Allende, cambiano vita. Chi finisce ad aprire ristoranti in Scandinavia, chi resta ma avverte la città che cambia a un ritmo frenetico. Passato un trentennio si ritrovano chi con una bella pancetta, chi con la chioma alla Hendrix. Decidono di mettere in piedi un piano diabolico, un colpo, una iniziativa rivoluzionaria. Qualunque cosa sia tutto va a monte perché in mezzo ci si mette un giradischi. Già, un giradischi che vola dalla finestra. È lo spaccato di un Cile e di un Sudamerica che ancora cerca la sua identità. Ancora a caccia di una sua dimensione. Che ha ferite aperte, anche se rimaginate parzialmente, richiuse dagli anni. Restano le delusioni, le delusioni di un mondo che doveva cambiare ed è ancora alla ricerca di una rivoluzione che sta per arrivare. Un mondo che ancora si lacera per l'esperienza breve e drammatica di Allende. Sepulveda non risparmia nessuno. Neppure se stesso. Perché il romanzo, che si legge tutto d'un fiato, non disdegna l'ironia e soprattutto l'autoironia. E alla fine riesce anche a prendere in giro i lati più comici dell'esser comunista a vent'anni dalla caduta del Muro di Berlino. Si ricordano le occupazioni delle fabbriche e un intero capitolo è dedicato a un esilarante racconto di come la protesta finisca per provocare una morìa di polli e galline. «Allora? Ce la giochiamo?», si ripetono tra loro in continuazione. Anche se questa partita non inizierà mai. Resta sospesa per tutto lo scorrere delle pagine come se lo scoccare, l'inizio, l'avvio di questa avventura stesse per giungere da un momento all'altro e puntualmente si rinvia, rimbalza più avanti. È anche un romanzo di chi è rimasto ostinatamente comunista anche se il mondo attorno è sparito, svanito. Un mondo che appare sempre più un ricordo e vive sempre più nella testa di qualche intellettuale. D'altro canto solo in Italia, in parte in Francia e in qualche posto del Sudamerica il mondo intellettuale è più indietro rispetto alla politica. Solo in parte nel mondo latino (non si può però dire così in Spagna o in Portogallo, neanche per sogno si può pensarlo del mondo anglosasssone) scrittori, registi, attori preferirebbero portare la politica ancora più a sinistra, rincorrono ancora Fidel Castro, si esaltano per Chavez, si emozionano per i dittatorelli sparsi per il mondo e che in qualche modo innalzano ancora la bandiera rossa. Tranquilli, è così da più di cinquant'anni: dai carriarmati in Ungheria il mondo intellettuale di sinistra vive prevalentemente di ricordi piuttosto che guardare avanti, di sogni più che di realtà, cammina per aria nello spazio senza restare con i piedi per terra. Torniamo al libro. Ci sono anche le parentesi più dure anche se affrontate sempre con un retrogusto che sa di sorriso: le torture di uno dei comunisti subite dalla dittatura cilena; la vittima ci perderà poi una valvola e finirà, comicamente e consapevolmente, a parlare da solo. Un particolare in parte drammaticamente autobiografico visto che lo scrittore partecipò attivamente alla resistenza cilena pagando anche sulla propria pelle. Piove. Piove su Santiago. Piove ancora. Un clima in parte maliconico e in parte buffo attraversa il romanzo, lo accompagina del voltare le pagine. Una scrittura affascinante e sorprendente. Che cambia ritmo. Che s'aggiorna. Insomma, una scrittura alla Sepulveda. Il quale è e resta uno dei principali scrittori del nostro tempo con il suo incedere incalzante, mai scontato, mai prevedibile.

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