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"Antichrist", gratta gratta c'è tanta letteratura

Charlotte Gainsbourg in

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Un'autentica opera d'arte indecifrabile alla maggioranza, accolta dal pubblico come «Le Fleur du mal» di Baudelaire nel 1857 o «Inferno» di Strinberg del 1897. Per fortuna non è il tempo delle censure e delle condanne cinematografiche anche se le diffamazioni costruite dalla critica riescono peggio dei roghi dell'Inquisizione. Veniamo a Strindberg. Quasi tutti lo hanno citato commentando il film poiché il regista stesso in un'intervista lo indica come fonte d'ispirazione. Ma possibile che nessuno sia risalito a «Inferno»? Possibile che tutti abbiano creduto che la Gainsbourg e Dafoe fossero una coppia qualsiasi a cui capita la disgrazia di perdere un figlio? Allora da dove sbucherebbe fuori il titolo «Anticristo»? Un'insegna luccicante per gli assonnati popcornisti-filosatanisti in cerca di emozioni pornosplatter? Non ci voleva troppo a sfogliare «Inferno» e svelare il capolavoro criptico di von Trier. Il bambino che cade dalla finestra all'inizio del film altro non è che Lucifero detronizzato, la cui caduta dal cielo genera dolore, pena e disperazione (le tre statue che cadono a terra). Tutto avviene in perfetta simmetria con la scoperta del male suggellato dall'amplesso dei due protagonisti (I progenitori cacciati dal Paradiso). Da questo momento il sesso sarà solo dolore e punizione e l'Eden diventerà il luogo delle paure arcane dove il mistero tremendum e fascinans della natura sarà svelato. Lo scontro fra i due sessi diventa la macroguerra di tutti i tempi tra ragione e istinto. Oltre a Strindberg la pellicola pullula di riferimenti a Baudelaire e Jung. Tutti e tre hanno un denominatore comune: gli «Arcana Coelestia» di Swedenborg e la dottrina delle corrispondenze. Cominciamo con Baudelaire. L'opera di Von Trier è una vera e propria petrarchizzazione dell'orribile in cinematografia. Numerose le citazioni da «I fiori del male». Innanzitutto la natura come tempio di simboli (Corrispondences) dove profumi, colori e suoni si rispondono (la caduta delle ghiande che diventa pianto per il defunto, l'uomo e il corvo accomunati dalla paura della morte, il grido della donna che scuote il cerbiatto). La Carogna nella visione dell'animale col ventre aperto e brulicante a ricordarci che "sotto l'erba e le grasse fioriture marciremo fra le altre ossa". E ancora Le Litanìe di Satana, il «De profundis clamavi», «L'Heatontimorouménos» dove il colpevole si autocastiga e dove l'acqua della salvezza diventa eaux de la souffrance (numerosi i riferimenti all'acqua - connotato fondante del cinema di Tarkovskij a cui il film è dedicato - nella sua accezione di ventre materno che culla e stritola come la lavatrice della scena iniziale, nella libido dell'attraversamento del torrente dell'Eden, nell'accezione più ampia di purificazione). Nella regressione primordiale verso gli strati oscuri dell'inconscio, la donna assume le sembianze di una strega junghiana, totemica e assoluta, che una volta messa al rogo permette di fare chiarezza. Il film ha una perfezione formale e una compiutezza sacrale, inizia con una caduta e termina con una salita, come la Divina Commedia, rievocata in più punti nella fotografia. L'Eden si riaffolla, la natura torna sorella. C'è la visione di un popolo in pellegrinaggio che ricorda una scena de «L'Enigma di Kasper Hauser» di Herzog. La méta in alto non è visibile ma lascia presagire sulle note di Handel l'ascensione verso una promessa più grande.

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