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Eluana Englaro: la sentenza di Milano ha gli effetti di una condanna a morte

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Ciò non toglie che abbiamo il diritto di vagliare con attenzione e anche con severità la risposta che le istituzioni stanno dando al caso, che non è isolato. Su questa, abbiamo il diritto-dovere di esprimere come cittadini il nostro giudizio, le nostre eventuali critiche ed infine i nostri suggerimenti. La materia è delicatissima, basti ricordare che è stato perfino contestato in radice l'intervento dello Stato. Pensiamo all'annosa questione dell'imposizione delle cure ad ammalati che non vogliono assistenza medica o all'intervento sostitutivo a favore di figli di genitori che, per fede religiosa, impediscono le trasfusioni di sangue. Ma un dato è certo: fa parte del nostro patrimonio di cultura giuridica la consapevolezza della legittimità dell'intervento pubblico quando la persona è in stato di totale incapacità di decidere per se stessa (art. 32 Cost.). Nel caso di Eluana Englaro, su richiesta del padre, è intervenuta la giustizia, con lo strumento suo proprio, una sentenza, quella della Corte di Appello di Milano, che lo ha autorizzato ad interrompere "il trattamento di idratazione e alimentazione forzato". Una decisione che sembra in astratto consentita, salvo errori nell'interpretazione delle norme applicate, che potranno essere corretti dalla Corte di Cassazione. Nel nostro ordinamento, infatti, vale il principio che è sempre possibile individuare delle norme "di chiusura" che - adeguatamente interpretate - consentono al giudice di decidere su ogni evento di rilievo giuridico sottoposto al suo esame anche quando manchi una specifica disciplina. Senonché, al di là dei suoi termini formali, la sentenza di Milano ha gli effetti di una condanna a morte, vietata dall'art. 27 Cost., che non potrebbe essere pronunciata da un giudice italiano. La questione dunque è di enorme rilevanza non solo giuridica ma anche politica. Il che spiega perché il Parlamento è subito intervenuto e, onde evitare l'irreparabile, ha scelto il meccanismo più rapido e meno arduo, quello, seppure dubbio, del conflitto di attribuzioni. Senonché, ancora una volta le nostre istituzioni stanno operando con atti condizionati dalle contingenze perché non sono stati tempestivamente affrontati i nuovi ed emergenti problemi che affliggono la società. È noto che una di queste emergenze è stata prodotta dal progresso della medicina, per la sua crescente capacità tecnica di garantire la sopravvivenza di persone in coma irreversibile. Il progresso è stato tuttavia parziale, la medicina non garantisce il ritorno alla vita cosciente né essa è univoca nel dirci chi o che cosa è mantenuto in vita artificialmente, ossia se si tratta effettivamente di una persona umana. Eppure, mentre è alla persona umana che la Costituzione riferisce i diritti, il legislatore non è autonomamente in grado di stabilire quali siano gli elementi occorrenti per la sua esistenza. Esso infatti è tenuto ad attingere alle "certezze" della scienza medica e a commisurarle alle condivise valutazioni e istanze etiche della società. Il fatto che tanto le une quanto le altre non forniscano risposte univoche, non esclude comunque il dovere di fissare le regole per risolvere le drammatiche situazioni che stanno venendo in essere sempre più numerose. Il Parlamento può pure ribellarsi alla sentenza di Milano ma in pari tempo deve assumersi le proprie responsabilità. Con una buona dose di coraggio dovrà porre in essere almeno delle disposizioni di legge che formino almeno un quadro vincolante affinché i giudici possano spaziare negli ordinari ambiti di valutazione dei diversi casi concreti. D'altronde, la Costituzione attribuisce alla legge la scelta dei limiti del rispetto della persona umana.

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