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di GIAN FRANCO SVIDERCOSCHI A Guilin, nella Cina del ...

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Ecco, quel cartello potrebbe essere un po' la metafora dell'esperienza che ventisei turisti italiani hanno vissuto, e delle emozioni che hanno provato, attraversando per due settimane il pianeta Cina. Una metafora che contiene, appunto, l'invito a non pretendere di giudicare questo straordinario Paese, riducendolo a un "materasso", con i parametri o peggio i preconcetti della cultura occidentale. Né, a maggior ragione, con la presunzione di visitatori come noi, un po' superficiali e inevitabilmente un po' frettolosi, sbrigativi. Non è facile comunque giudicare una realtà come quella cinese, nata dalla confluenza - spesso forzata, spesso realizzata con le armi - di una miriade di diversità sociali, culturali e politiche. Per cui a ogni passo che fai ti imbatti in una situazione ambigua, dalle due facce, e, per questo, difficile da decifrare. Insomma, è come se la Cina avesse nel suo DNA il segno di una contraddizione continua, permanente, perenne. I cinesi, definendosi il "Regno di Mezzo", intendono dire ancora oggi di essere il centro dell'universo, il motore della storia mondiale. Ma forse il vero significato di questa definizione viene dalla filosofia confuciana, dall'aspirazione a essere un Paese senza contrasti, armonioso. Dove però, di conseguenza, tutto è appiattito, domina il compromesso. E, al fondo, resta sempre la natura contraddittoria di ciò che alla superficie si è cercato di smussare o di unire. Per esempio, andiamo a Xian, una delle antiche capitali. Da qui partiva la "via della seta", e forse per questo c'è ancora oggi una forte presenza musulmana, con una splendida moschea nello stile dei templi cinesi. Andiamo a vedere quel capolavoro che è l'esercito di terracotta: centinaia di guerrieri con una espressione diversa l'uno dall'altro, e che, tutti insieme, danno un senso di grandiosità nell'essere lì, da secoli, a proteggere il loro sovrano. Che era sì un personaggio megalomane, sanguinario, responsabile di stragi e oppressioni, fece addirittura bruciare gran parte della letteratura cinese. Ma Qinshi Huangdi - capostipite della dinastia Qin, da cui venne il nome, dato dagli stranieri, di "Cina" - ebbe anche il merito di aver per primo unificato quello che, duecento anni a.C., era un frastagliatissimo arcipelago sociale e politico, fatto di tanti staterelli in lotta gli uni contro gli altri. Contraddizioni. Sempre contraddizioni. E ne è piena la Cina di oggi, con la sua vertiginosa crescita economica ma anche con le sue immense ingiustizie, con la bellezza del suo sviluppo architettonico ma anche con i suoi drammatici guasti ecologici. Pechino, appena scendi dall'aereo, ti abbaglia, ti sembra di stare in una città americana, i negozi di lusso, i supermarket che ti propongono interi stand di famosi stilisti (con una piccola correzione nel nome, come "Anmani" invece di Armani, per coprire la perfetta contraffazione dei prodotti stranieri), e i McDonald's, i grattacieli che hanno preso il posto dei vecchi quartieri periferici, il nuovo stadio a forma di nido per le Olimpiadi. Ma poi, camminando per le strade, scopri lo scempio edilizio, e in certi momenti non riesci a respirare, il cielo è costantemente coperto dalla coltre di smog, non vedi mai nuvole; bambini e vecchi vengono invitati a non uscire di casa, e, se lo fanno, a coprirsi il viso con una mascherina. Al centro della Cina, sullo Yangtze, uno dei due grandi fiumi, si sta completando la costruzione di un'opera faraonica, la diga delle Tre Gole, che alla fine sarà il più grande bacino idrico del mondo. Intanto, però, quattro milioni di persone (oltre al milione e mezzo che è già stato trasferito) dovranno lasciare le loro case, le loro terre, quindi saranno sradicate dalla loro stessa storia, dalle memorie dei loro antenati, e "ricollocate", come dicono da quelle parti, nella periferia della città di Chongqing: la metropoli - anche se molti all'estero non ne conoscono neppure l'esistenza - più popolosa della Cina, conta quasi 28 milioni di abitanti. Contraddizioni. Sempre contraddizioni. Ma, quel che è peggio, è che gli attuali dirigenti cinesi non vogliono affrontare queste contraddizioni, né tanto meno riconoscerle. Al massimo si arriva a dire che il boom economico ha avuto costi eccessivamente elevati sul piano umano e ambientale. Ma niente di più. Si guarda avanti, al futuro, sempre al futuro, ossessivamente al futuro, e mai appena indietro, a quel che è accaduto nel passato. C'è come una amnesia collettiva. Tutta una serie di argomenti tabù, coperti ermeticamente dalla censura o dal velo pietoso delle spiegazioni delle guide che parlano di "fatti dolorosi, meglio lasciar stare". Così per la rivolta dei Taiping, scoppiata a metà del XIX secolo: una rivolta nel segno della democrazia e del Vangelo, combattuta paradossalmente anche dalle potenze cristiane, e, ancora più paradossalmente, "entrata" nel programma iniziale del Partito comunista. Così per i contrasti passati con il nazionalismo di Chang Kai-shek e per quelli di oggi con Taiwan. Così per l'occupazione del Tibet e la figura del Dalai Lama. Ma, su un punto specialmente, è calato un silenzio di tomba. I dirigenti cinesi non vogliono confrontarsi con la storia recente, quella della repressione in piazza Tiananmen ma prima e più ancora con quella di Mao, e con i clamorosi insuccessi che, al di là dei risultati indubbiamente ottenuti, hanno segnato il bilancio della Lunga Marcia, della Rivoluzione culturale. E, a più forte ragione, gli uomini della nomenklatura non vogliono fare i conti con la mutazione "genetica" di quello che è ormai solo un simulacro di regime comunista, perché oggi non ha più niente del marxismo-leninismo: é un Partito-Stato tecnocratico, con una riuscita nel campo economico che ha dell'incredibile, ma sempre autoritario, oppressivo sul piano dei diritti umani e civili, e che non rinnega i suoi legami con feroci dittature, come quella dell'ex Birmania. Quel che più colpisce, perciò, è la metamorfosi che sta subendo la figura di Mao. In tutto il Paese, almeno in apparenza, il suo mito è rimasto intatto, si avverte anzi la persistenza di un certo culto della personalità. Ritratti e statue dappertutto. Il suo faccione sovrasta l'ingresso nella Città Proibita a Pechino. Il suo Libretto rosso campeggia nei mercatini. Il gigantesco ponte in ferro sul fiume Yangtze, a Nanchino, sta lì a ricordare il coraggio e la forza rivoluzionaria del Grande Timoniere, sia nel costruire una Cina dove ci fossero più giustizia e più protezione sociale per tutti, sia nell'imboccare una via autonoma, sganciandosi dal potente alleato sovietico. Invece, a guardare bene le cose, Mao è ormai un personaggio lontano, niente di più. La guida di Nanchino, pur rivendicando i fasti socialisti, spiega il cambiamento copernicano che c'è stato: "Prima, Mao era quasi un dio, adesso è un grande eroe". Non dice tutta la verità. Non dice che Mao è stato clamorosamente tradito. Non dice che il comunismo cinese da lui inventato - il "maoismo" - non c'è più. Sparito. Nascosto in cantina. E perfino un po' irriso nel momento in cui Deng Xiaoping se ne è venuto fuori con quella frase stupefacente: "Arricchirsi non è disonorevole". Quelle quattro parole non solo hanno sanzionato l'ingresso ufficiale della Cina nel libero mercato, nel mondo della globalizzazione, ma hanno decretato la fine dell'economia cosiddetta "solidale" ch'era stata architettata da Mao. Si capisce allora perché sia così difficile giudicare la Cina, e specialmente la Cina di oggi. Anche perché non c'è una sola Cina ma perlomeno due, e nettamente distinte, separate. C'è una Cina indubbiamente più ricca o sulla via di diventare ricca, ed è la Cina delle città, già immersa nel clima dello sviluppo economico, della modernizzazione, la Cina delle forze produttive, ossia dei lavoratori dell'industria, degli imprenditori e degli intellettuali. E poi c'è la Cina delle campagne, dei 700 milioni di contadini, i cui interessi il Partito ha ormai smesso di tutelare. È la Cina povera o che sta diventando velocemente sempre più povera, e che andrà via via ad ingrossare le periferie delle metropoli, abbandonando i terreni di coltura, le stesse risaie, le famose "terrazze", con il rischio che nel giro di una decina di anni il Paese debba diventare un importatore di riso! Noi, durante il viaggio, abbiamo potuto dare uno sguardo, oltretutto un po' troppo rapido e dall'esterno, solo alla prima Cina, a quella delle città, a quella già avviata sostanzialmente sulla strada della crescita economica. È vero che qualcuno, come Sabine, ha cercato di andare a scoprire la "vera Cina", la seconda Cina, quella degli esclusi, degli emarginati. E l'intero gruppo, in una gita in barca lungo il grande canale che parte da Suzhou, ha potuto conoscere un villaggio poverissimo. Ma siamo sempre rimasti ai margini della Cina evoluta, segnata dal progresso, se non addirittura già sfiorata dal consumismo. E tuttavia, anche se abbiamo avvicinato solo una delle due realtà, siamo forse riusciti a percepire quella che ne è la questione fondamentale. Semplicissima, ovvia, lapalissiana, ma pur sempre fondamentale. Ed è la questione del "numero". La Cina è un Paese che ha un miliardo e trecento milioni, se non più, di abitanti. Qui, dunque, ogni problema devi "moltiplicarlo" per un milione, per cento milioni. La povertà (ma, per contro, anche la nuova ricchezza) assume qui dimensioni e implicazioni che travalicano gli schemi e le impostazioni tradizionali. In altre parole, qui ogni problema non potrà essere risolto senza tener conto che coinvolgerà inevitabilmente una massa enorme di persone, uomini e donne, bambini e vecchi. (1. continua)

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