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di GIAN LUIGI RONDI NON c'è bisogno di risalire a Mario e Silla.

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Basti pensare alle contese, in molti casi violente, tra i seguaci del Tasso e quelli dell'Ariosto nel Cinquecento. Per tenerci ai giorni nostri, chi non ricorda - anche se non vi ha partecipato di persona - i furiosi dualismi sportivi tra Binda e Guerra e, subito dopo, tra Bartali e Coppi? Delle e vere e proprie fazioni, delle autentiche battaglie. Anche il cinema ne ha conosciuta una, quella che, a metà degli anni Cinquanta, ha opposto, prima in sordina, poi in modo sempre più diretto, Gina Lollobrigida a Sophia Loren. La "guerra" non scoppiò spontaneamente ma grazie all'idea di un responsabile delle relazioni con la stampa (allora, non ancora colonizzati, non si definivano press-agent) che aveva creduto utile, per favorire la carriera di Sophia, inventare ad arte un dualismo di cui proprio non si sentiva bisogno. Eravamo attorno al '53. Come critico, di Sophia non m'ero neanche accorto. Del resto, dopo qualche fotoromanzo, aveva recitato, con lo pseudonimo di Sofia Lazzaro (il cognome vero era Scicolone) in piccoli film che io neanche recensivo. Un giorno, però, mi arrivò una telefonata, di Goffredo Lombardo che aveva prodotto, per la regia di Giovanni Riccardi (mai più sentito dopo) un film di argomento subacqueo, «Africa sotto i mari». «Dai un'occhiata alla ragazza. Finora si chiamava Sofia Lazzaro, io l'ho ribattezzata Sophia Loren, con il "ph", mi raccomando, non con la "f", potrà far strada, una faccia ce l'ha». Vidi il film, vidi solo una "faccia" e lì mi fermai. Qualche tempo dopo, però, una telefonata di un altro produttore, Carlo Ponti. «Ho preso sotto contratto per sette anni un'attrice che avrà un avvenire. Le ho fatto avere la parte della protagonista in un film-opera dall'"Aida", diretto da Clemente Fracassi. Naturalmente non canta, la doppia Renata Tebaldi, ma anche se recita tinta di nero, svela un fascino che subito la impone». Aveva ragione e comunque voleva averla, sapendo come riuscirci. Intanto, cominciando a "fabbricarla" la sua speranza. Molti studi di recitazione e di dizione, molti truccatori, molti stilisti. E poi, subito dopo, molti film studiati in vista delle sue possibilità. Il punto di partenza non poteva essere che Napoli dove Sophia (con quel "ph" cui ha detto addio solo di recente) aveva avuto i natali (a Pozzuoli, per l'esattezza). Da qui una prima scelta di caratteri caldi che non potevano mancare di imporla. Specie se, a crearli, Ponti aveva fatto intervenire dei registi di vaglia. Ettore Giannini per «Carosello napoletano», dov'era una "sciantosa", Vittorio De Sica per «L'oro di Napoli», dov'era la famosa pizzaiola, Alessandro Blasetti per «Peccato che sia una canaglia» (non più napoletana, per l'occasione, ma romanesca), Mario Camerini per «La bella mugnaia», addirittura in costume del Seicento. Un seguito di successi che però fecero dire a Ponti: «Ora andiamo a Hollywood, il vero successo lo si ottiene lì». Come tutte le sue, un'idea giusta anche quella. Ecco così poco dopo, Ponti e Sophia, uniti adesso anche da un complicato matrimonio messicano, pronti per la conquista dell'America. Senza difficoltà, prima Martin Ritt con «Orchidea nera», che addirittura fece premiare Sophia alla Mostra di Venezia come migliore attrice, poi Sidney Lumet con «Quel tipo di donna», quindi Michael Curtiz con «Olympia», per arrivare addirittura a George Cucor con «Il diavolo in calzoncini rosa», un piacevolissimo western al femminile. A Ponti, però, il premio a Venezia non bastava. Uscendo dal Palazzo del Cinema mi disse: «Adesso voglio l'Oscar». E l'ottenne. Dopo avere ancora una volta chiesto a De Sica di intervenire proponendogli, con il pieno accordo di Moravia, addirittura «La Ciociara». Cui seguì il premio al Festival Di Cannes e, in Italia, il David di Donatello e il Nastro d'argento. La conferma che, a tutti gli effetti, Sophia era ormai un'attrice. Con meriti saldi, con una gamma di sfumature drammatiche per le quali, qui da noi, si tentano confronti perfino con Anna Magnani, la grande tragica del nostro cinema. Tutto

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