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Transnistria, lo Stato che non c'è

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Il misterioso e inquietante Paese ex sovietico ignorato dalla geografia e dalla politica

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Stiamo parlando della «autoproclamata repubblica» della Transnistria, incastonata tra la Moldova e l'Ucraina, a Oriente del fiume Dnestr. L'implosione dell'Unione Sovietica — non è inopportuno ricordarlo — ha fatto nascere sei nuovi Stati in Europa (Estonia, Lettonia, Lituania, Bielorussia, Ucraina, Moldova); tre nel Caucaso (Georgia, Armenia, Azerbaigian); cinque a Est degli Urali, nell'Asia Centrale (Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan, Tagikistan). Ma c'è un quindicesimo «Stato non riconosciuto», quello del quale ci stiamo occupando. La Transnistria ha una capitale (Tiraspol), un presidente (Igor Smirnov) di osservanza marxista-leninista, una bandiera (rosso-verde-rossa), batte moneta (il rublo locale), dispone di un esercito bene armato, formato da soldati della ex Armata Rossa, con tanto di falce e martello sul berretto. Questo Stato "clandestino", un po' più esteso del Piemonte, con meno di un milione di abitanti, non ha uno sbocco sul Mar Nero; tuttavia, ha fatto la fortuna del porto ucraino di Ilicevsk, col quale è collegato, sulle cui banchine si allineano, pronti per la spedizione, centinaia di container dal contenuto top secret. Igor Smirnov, un ex agente del Kgb, ha trasformato questo lembo di Europa Orientale in un crocevia di traffici illeciti: droga pesante (leggi eroina), denaro sporco da riciclare, prostituzione. «La «voce» più attiva dell'export è però rappresentata dal commercio delle armi. La Transnistria è infatti un gigantesco deposito di armi, provenienti dai vecchi (ma non per questo meno efficienti) stock dell'Armata Rossa e dai quantitativi, nuovi di zecca, prodotti dalle fabbriche di Tiraspol. L'effigie del maresciallo Aleksandr Suvorov — caro a Caterina II — riprodotta sulle banconote, non è che uno dei tanti richiami al mestiere delle armi, esaltato da chi detiene il potere, incline a conciliare la tradizione militare zarista con l'ideologica comunista (le statue di Lenin sono rimaste al loro posto e non soltanto nella capitale). Mitra, lanciagranate, missili, cannoni senza rinculo, blindati, prendono le direzioni le più diverse, soprattutto verso le aree calde della ex Unione Sovietica (Cecenia, Abhasia, Nagorno Karabak). Ma a Tiraspol fanno shopping in fatto di armi, dietro pagamento cash in valuta pregiata, anche acquirenti del Vicino e del Medio Oriente e non si escludono emissari di al Qaeda, all'insegna del ben noto motto «business is business». Il dubbio è se questi traffici riguardano soltanto armi convenzionali o se spaziano in altri settori, ancora più micidiali, come materiale fissile e componentistica atomica. D'altro canto, perché meravigliarsi? Al momento della quadripartizione dell'arsenale nucleare sovietico tra Federazione russa, Bielorussia, Ucraina e Kazakistan — una repubblica islamica — quest'ultima gestì 18 mila testate atomiche, tra grandi e piccole. Ebbene, quando queste testate furono disattivate, le autorità kazake dichiararono candidamente di averne "smarrita" una, finita (dissero) sotto una spessa colata di cemento, in un sito irraggiungibile per qualsiasi malintenzionato. Anche agli ispettori della Agenzia di Vienna (Iaea) venne data la stessa spiegazione: dopodiché di questo sospetto "smarrimento" non si è più parlato, mentre il Pakistan varcava la soglia nucleare e si faceva avanti l'Iran, con lo stesso obiettivo. Il mistero nel mistero — per tonare alla Transnistria, col suo intreccio malavitoso che ha calamitato anche ambienti della mafia russa — è che la sua anomalia geopolitica e statuale viene tollerata e accettata da tutti, compresi i governi di Mosca e di Kiev. Che si sappia, soltanto alla confinante Moldova questa imbarazzante realtà risulta intollerabile: ai dirigenti di questa repubblica viene letteralmente il sangue alla testa al solo sentir parlare di Igor Smirnov e della sua corte di miliziani. La vicenda, bisogna convenirne, è degna di un racconto di fantapolitica, perché sem

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