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di MASSIMO TOSTI SE NE PARLA - per fortuna - a differenza di quanto avvenne sessant'anni fa, se non a tragedia consumata.

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Oggi - per fortuna - le minacce del presidente iraniano Ahmadinejad si scontrano con una piena consapevolezza dell'opinione pubblica internazionale e, quindi, con una ferma opposizione. I fondamentalisti iraniani sono isolati. Ma gli ebrei sono costretti a convivere con gli incubi che hanno segnato la loro storia e di cui non riescono a liberarsi neppure in un momento come l'attuale, in cui il governo Sharon raccoglie consensi per la liberazione dei territori occupati. La Shoa - il male assoluto del XX secolo - è da sessant'anni al centro di studi, ricerche, saggi, ricostruzioni e rivelazioni in sede storica. Anche la cultura avverte il bisogno di spurgare la coscienza del mondo dai demoni che l'hanno posseduta. Migliaia di libri sono stati dedicati all'Olocausto. E ne usciranno molte altre migliaia. Ma è singolare che in questo particolare momento (mentre Ahmadinejad lancia i suoi proclami nazisti) vengano affrontati - in un film e in un libro - due aspetti marginali della diaspora ebraica. Il film - «Vai e vivrai», del regista rumeno Radu Mihaileanu - racconta il destino dei falashas, gli ebrei etiopi, migliaia dei quali furono salvati nel 1984 con un ponte aereo che li condusse in Israele. Il film narra la vicenda di un bimbo, Schlomo, costretto dalla madre cristiana a dichiararsi ebreo (e orfano) per porsi in salvo. Il libro si intitola «La regione ebraica in Russia» (Giampiero Casagrande Editore, 20 euro) ed opera di Alessandro Vitale, un esperto di relazioni internazionali che ha soggiornato a lungo in Russia, prima e dopo la caduta del regime sovietico. Racconta - in termini scientifici - la storia della "Prima Israele", la regione della Siberia, ai confini con la Cina (nell'Estremo Oriente) colonizzata a partire dal 1928 dagli ebrei sovietici, e riconosciuta come entità amministrativa nel 1934. Un'enclave ebraica nell'impero comunista. Una magnifica contraddizione fra libertà (in tutti i sensi: religiosa ed etnica) all'interno di un regime che si dimostrò spietato con tutte le minoranze (religiose ed etniche). Le ragioni per le quali Stalin favorì il progetto (pur non credendo nell'esistenza di una nazione ebraica) furono molte, complesse, e non del tutto chiare. Ma è facile intuire che il dittatore fosse attirato dall'idea di confinare gli ebrei in un "ghetto", lontano molte migliaia di chilometri dal centro dell'impero, in una regione climaticamente difficile, ma ricca di risorse naturali che una manodopera qualificata avrebbe potuto sfruttare, creando una sorta di regione cuscinetto al confine con la Cina. Nei successivi cinquant'anni si trasferirono a Birobidzhan (la capitale della regione autonoma, che non divenne mai repubblica, né conquistò una completa autonomia amministrativa) più di 37 mila ebrei. La maggior parte di essi, tuttavia, preferirono (prima o poi) emigrare altrove, per lo più in Israele dopo la nascita del nuovo Stato, impauriti dalle condizioni di insicurezza in cui si sentivano costretti a vivere con un regime implacabile quanto imprevedibile. Quelli rimasti riuscirono a compiere un autentico miracolo, riuscendo a convivere e a collaborare con le diverse etnie già insediate in loco (grandi-russi, coreani) e con quelle che arrivarono in seguito (slavi occidentali, bielorussì e - soprattutto - ucraini). Oggi ne sono rimasti alcune migliaia, e si sta registrando una controtendenza: fino a pochi anni fa c'era un flusso costante di emigrazione da Birobidzhan verso Israele; adesso circa centocinquanta ebrei, ogni anno, tornano da Israele in quella remota regione della Siberia. Alessandro Vitale sostiene che questa contro-emigrazione testimonia la volontà di abbandonare una patria in conflitto permanente con i suoi vicini per ritrovare un'oasi di convivenza. Anche se Birobidzhan è stato un esperimento incompiuto. Dopo il crollo dell'Urss, la Regione Ebraica «avrebbe potuto guadagnare l'indipendenza, non diversamente da altre Repubbliche ex sovietiche,

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