di ENRICO CAVALLOTTI JESI — In potenza, ha del vertiginoso e dell'incredibile un Festival ...
A ragionare sulla grandezza ineffabile del primo e sulla sua sostanziale estraneità al gusto delle odierne plebi melomani capiamo d'un tratto quale miniera di stupori e di meraviglie potrebbe essere aperta e sfruttata da una siffatta kermesse. Il Festival verdiano di Parma lustra il già noto: il troppo noto. Il Festival rossiniano di Pesaro infulgida da par suo la genialità del maggior operista italiano di tutti i tempi, i cui echi echeggiano ognora nei nostri teatri lirici. Ma il Festival di Jesi ha, o dovrebbe avere, il còmpito di divulgare le musiche d'un autore assiso sull'Olimpo ma celato ai piú: che d'assai sovrasta i melodrammi pseudoromantici del primo Ottocento italiano per una nobiltà di scrittura che manco Donizetti e Bellini potevano contemplare, a tacer di Verdi; per una purità di canto che aspira e volge a gli ideali rastremati del Classicismo; per un'orchestrazione di sapienza e sottigliezza piú austrotedesche che italiane. Il Festival di Jesi, all'unissono con la Fondazione Pergolesi Spontini (sorta nell'anno 2000), ha pertanto un dovere culturale ed una responsabilità morale fra i piú elevati, che soli lo giustificano e l'illuminano di pertinente ed autorevole consenso. In vero, l'inaugurazione del Festival cui s'è assistito quest'anno non è stata molto significante: non tanto per l'intrinseca bontà dello spettacolo quanto per il valore oggettivo della scelta: «Lalla Rûkh, ovvero Guancia di Tulipano»: un «Festpiel» che nel 1821 Spontini compose in quattr'e quattr'otto a Berlino onde celebrare la visita dei principi russi alla corte prussiana di Federico Guglielmo III. Il testo era tratto dal poema esotico di Moore, la musica era costituita di scarse pagine cantate e di un'introduzione istrumentale. Non era un'opera, ma una sòrta di divertissement di rapido consumo: cotta e mangiata - passata la festa, gabbato lo santo. La Lalla rovinò nel gran dimenticatoio dell'universo, sepolta da ben altri cimenti spontiniani. Ricuperarla oggi non era conceduto dal grave difetto di documentazione. Cosí che il compositore Azio Corghi e lo scrittore Aldo Busi, l'uno ha riscritte le musiche con attualizzato gusto di strumentazione sulla falsariga dei frammenti originarî, l'altro s'è scapricciato a riscrivere il poema del Moore: arbasineggiando qui e lí, scodellando battute giornalistiche ed ammicchi brillanti, come s'usa al modo d'oggi, ed al modo suo. Dei giovani cantanti tedeschi hanno cantato neanche male, ed un giovane direttore ha dirette le poche note che gli competevano senza falli abnormi. Lo spettacolo è risultato profuso, e bastardo: non era Spontini, non era Corghi, non era Busi, bensí tutt'e tre impolpettati in una cifra d'approssimazione e di vaghezza che non poteva recar contento ad altri che ai due ultimi mentovati, se mai. Ciò che massimamente latitava era il «Festspiel» spontiniano, e la Corte prussiana che partecipava allo spettacolo al tempo suo: e lo spirito del tempo. Come a dire: tutto