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di MARIO BERNARDI GUARDI UNO DEI dei romanzi che quest'anno ha ottenuto maggior successo, ...

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E, diciamo così, come «insegna», atta a dare un «senso» alla scelta, questo brano tratto dalla «Casa in collina» di Cesare Pavese: «Ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce, si tocca con gli occhi, che al posto del morto potremmo esserci noi: non ci sarebbe differenza e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo, ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto assomiglia a chi resta e gliene chiede ragione». «La casa in collina», scritto cinquantacinque anni fa, era un romanzo «revisionista»? E magari lo era anche il successivo «La luna e i falò» nel quale il protagonista, ritornato dall'America al suo paese, viene a sapere che la ragazza più bella della cascina, oggetto un tempo dei suoi impossibili desideri, è stata uccisa dai partigiani come spia fascista e bruciata in un falò sacrificale, di espiazione e ricomposizione comunitaria? Non vogliamo dare risposte affrettate o strumentali: diciamo, piuttosto, che forse è il caso di rileggere Pavese. È quello che ha fatto Elio Gioanola raccogliendo trent'anni di studi («Cesare Pavese. La realtà, l'altrove, il silenzio», Jaca Book, 186 pagine, 15 euro) dai quali non emerge certo l'icona cara a certi ostinati progressisti. Poco a che fare aveva Pavese con lo storicismo, con l'illuminismo, con il razionalismo; non c'entrava nulla con il naturalismo ottocentesco ed era difficile farlo stare a forza tra i neorealisti; anche se aveva la tessere del PCI e collaborava all'«Unità», non era un «impegnato», ed aveva un sentimento mitico dell'uomo, del tempo, della storia. La «sua» Resistenza non poteva essere la lezioncina di un pedagogista politico al servizio della verità ufficiale: ma, come rappresentazione «epica», doveva incontrarsi e scontrarsi con i valori «elementari» della terra, della tradizione, del sangue. E della «pietas» con cui ogni epica guarda al «nemico» vinto. Nell'«altro», come scriveva Borges, ci sono mille volti e c'è anche il nostro. Pavese lo sapeva e questo era lo sguardo che posava sugli uomini. Dunque, non retorica né ideologia, per lui, ma attenzione «religiosa» di fronte agli eventi. Per poter capire e tornare a dare un ordine alla comunità. Questa «inquietudine» di Pavese va rispettata. Non tutti lo fanno. Non tutti lo fecero quando, nel 1990, «La Stampa» fece la scelta iconoclasta di pubblicare inediti fogli del diario stilato da Pavese tra l'estate del '42 e il dicembre del '43. Orrore! Ne veniva fuori inaspettatamente un intellettuale tutt'altro che disposto a sputare sul Ventennio; sprezzante nei confronti degli antifascisti; realisticamente incline a ragionar di guerra in termini non moralistici e dunque prendendo atto della sua ferocia; interessato alla costituzione della RSI; attratto da Nietzsche e Junger, dall'«amor fati» e dalla mitologia rivoluzionario-conservatrice del «Blut und Boden». Qualcuno, scandalizzato, lo ribattezzò «il piccolo Cesare». Ma chi non teme la verità sa che Cesare fu grande proprio perché «scandaloso».

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