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Discriminazione sul lavoro, alle donne mancano i servizi di supporto

Fernanda Fraioli
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L’ultima, in ordine di tempo, ad essere stata messa sotto accusa per le affermazioni in merito al genere cui deve appartenere un dirigente d’azienda è stata Elisabetta Franchi. Ma non l’unica. È una tematica che ciclicamente torna agli onori della cronaca.

In questi giorni notizie sul medesimo tema, anche se differentemente riportate, si sono susseguite a ritmi preoccupanti. Sotto la più benevola forma del trattenimento a tempo indeterminato di una collaboratrice in avanzato stato di gravidanza solo per stima e fiducia o del rustico avviso apposto sulle vetrine di un Mac Donald che espressamente richiedeva personale maschile, l’argomento è tornato prepotentemente alla ribalta. Ma quel ch’è peggio, ha scatenato le più becere considerazioni che hanno evocato quei rudimentali schieramenti degli anni Ottanta. Quanto di più sbagliato perché, se vero è che la contrapposizione di generi continua a esserci, con annessa penalizzazione femminile, altrettanto vero è che il mondo del lavoro è cosa assai più seria di una chiacchiera da bar.

Le discriminazioni che qui si subiscono – tanto più evidenti e tangibili per le posizioni apicali sempre a scapito delle donne – esistono ma non per una loro incapacità quanto molto banalmente per la mancanza di servizi che devono fungere da supporto. Tralasciando l’avviso del Mac Donald che è stato furbescamente o meno non lo sappiamo, giustificato con la ricerca della forza fisica necessaria per spostare scatoloni che una donna non avrebbe potuto fornire, a livello dirigenziale non ci sono scuse. Siamo tutte perfettamente d’accordo che per noi donne lasciare la prole, quanto più presto dalla nascita, è un pensiero che non sembra ammettere soluzione, ma così non è. Assodato che a livello apicale non sono gli scatoloni a dover essere gestiti, una buona politica gestionale dovrebbe prevedere, ancor prima di qualsivoglia assunzione, le strutture di supporto necessarie, al contempo, per il singolo lavoratore e per la stessa azienda.

Appare miope, ad esempio, assicurare una segretaria tuttofare che ti segue anche in tutti quei numerosi posti all’altro capo del mondo da raggiungere in un nanosecondo (come la stessa imprenditrice ha dichiarato) e che in nessuna struttura, pubblica o privata che sia, è mai stata prevista un’equivalente figura di nurse al seguito «della capa». E non è problema di spostamenti, perché non è dato rilevarne neanche nelle sedi locali. È proprio la figura a non essere mai stata neppure ipotizzata e che non lo faccia un uomo è nelle cose, ma che non venga pensata da una donna è preoccupante e un tantino contraddittorio.

Tralasciando per un momento il pubblico che ha una tradizione lavorativa differentemente congegnata, se si vuole anche un pochino più macchinosa, per il settore privato di questo neppure si dovrebbe parlare. L’imprenditore ha tutta la libertà di prevedere figure professionali di supporto, singolari e differenti, e di creare le strutture di sostegno necessarie di pari passo con il progresso. D’altronde, in passato, sono esistiti imprenditori illuminati (Olivetti, ad esempio), che assommavano in sé figure di psicologo e sociologo, che ora sono entrate agevolmente in azienda perché il welfare del personale è argomento principe di qualunque politica del lavoro.
E welfare è anche mettere in condizione le donne di non dover decidere se mettersi in gioco o meno perché ci basta già l’orologio biologico a fare la sua parte ed a suddividerci tra buone e cattive a seconda se veniamo analizzate come fattrici o come votate al sacrificio professionale.
 

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