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Covid, il polo farmaceutico è un'altra occasione persa

Dario Martini
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Un anno fa il governo Draghi aveva annunciato in pompa magna che sarebbe nato un grande polo farmaceutico nazionale. Capofila le aziende del Lazio. Un progetto altamente all’avanguardia che avrebbe dovuto avere al centro la produzione di vaccini italiani contro il Covid. Il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, assicurò un investimento da 500 milioni di euro. Si tennero anche diverse riunioni al Mise. Era tutto deciso. Invece, non se ne farà più nulla. E, come se non bastasse, le imprese farmaceutiche stanno rinunciando a scommettere sul nostro Paese. La decisione della multinazionale Catalent di non investire più 100 milioni di euro nello stabilimento di Anagni è solo l’esempio più eclatante. Ma non è un caso isolato. Basti citare due altre aziende con sede a Castel Romano, Reithera e Takis, che hanno dovuto rinunciare a produrre i sieri anti-Covid.

Partiamo dalla Catalent di Anagni. I 100 milioni dovevano servire per comprare otto bioreattori. Una tecnologia in grado di garantire la produzione di farmaci biologici e, quindi, anche di vaccini contro il coronavirus. Il maxi-investimento, che avrebbe creato un centinaio di posti di lavoro, è stato spostato all’estero, nell’Oxfordshire. Il motivo? Il solito che affligge da decenni l’economia italiana: la troppa burocrazia. Le autorizzazioni ambientali, infatti, non sono mai arrivate. Il progetto si è arenato tra i rilievi dell’Arpa (l’agenzia regionale per la protezione ambientale) e le richieste di chiarimento da parte del ministero della Transizione ecologica. Dopo un’attesa di tre anni, l’azienda ha deciso di puntare sul Regno Unito. I sindacati, dopo un incontro in Regione Lazio, hanno chiesto un tavolo con il ministero di Cingolani e con quello di Giorgetti per convincere l’impresa a fare dietrofront. Il governatore Zingaretti però non fa drammi: «Penso sia l’occasione per mettere mano a leggi che vanno cambiate. Da questa vicenda dobbiamo trarre una lezione affinché si possano semplificare le norme». Il presidente della Regione professa comunque ottimismo: «Con Catalent il canale è aperto, penso che si sia avviato un rapporto proficuo che possa portare ad ulteriori investimenti qualora si risolvano i problemi che loro stessi hanno giustamente denunciato». È di tutt’altro avviso Massimo Tabacchiera, presidente di Confapi, secondo il quale questo «non è un caso isolato, ma solo uno dei tanti esempi di investimenti e di opportunità respinti dall’ordinaria burocrazia».

 

 

 

 

Interpellato da Il Tempo, il presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi, sottolinea come l’investimento perso ad Anagni sia «una grande occasione persa». Il numero uno dell’associazione che riunisce le imprese italiane del farmaco spiega cosa sta accadendo: «Il Covid ha reso ancora più evidente la competizione internazionale. Vince chi ha meno burocrazia e regole più semplici. Bisogna che le nostre istituzioni comprendano che le politiche sanitarie sono anche politiche industriali. Quello della Catalent è un esempio evidente». Il fallimento del polo farmaceutico che avrebbe dovuto portare alla produzione di un vaccino «nazionale» contro il Covid è un altro esempio che spiega bene l’assenza di una seria strategia nazionale. L’«autosufficienza vaccinale» ribadita più volte lo scorso anno dal ministro Giorgetti non è mai divenuta realtà. Il sostegno alle imprese che avrebbero dovuto produrre i vaccini è venuto a mancare. L’azienda Reihtera è stata costretta a rinunciare agli 81 milioni promessi da Invitalia dopo la bocciatura della Corte dei conti. Ma non si è data per vinta. Ha proseguito nella sperimentazione acquistando anche due bioreattori. Poi, però, i finanziamenti sono venuti a mancare. E si è bloccato tutto. Anche il progetto del vaccino della Takis, l’altra impresa con sede a Castel Romano, è finito in soffitta. Stesso problema: mancano i finanziamenti.

«Una volta eravamo i primi produttori di farmaci in Europa - ricorda Scaccabarozzi - Adesso condividiamo la leadership con Germania e Francia. Il polo per produrre il vaccino italiano contro il virus è stato abbandonato, ma ci siamo comunque dati da fare. L’export è cresciuto del 70% rispetto al 2020, pari a 2,6 miliardi di euro, di cui 1,5 sono solo di sieri contro il Covid (quello di Pfizer ad esempio viene prodotto proprio ad Anagni, ndr). In questo ultimo campo siamo quarti in Europa dietro Belgio, Germania e Spagna».
 

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