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Il mondo va a carbone, le miniere Usa hanno già venduto tutta la produzione per anni

Carlantonio Solimene
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Il caro vecchio carbone. «Caro», sì, nel senso di costoso. Ma sempre meno del gas naturale e delle energie rinnovabili tanto amate dagli ambientalisti di ogni latitudine. E così, mentre i grandi della terra sono impegnati a promettere svolte «verdi» nei loro approvvigionamenti energetici per «salvare il pianeta», il carbone - combustibile inquinante per eccellenza - vive una nuova primavera. Al punto che i principali estrattori statunitensi hanno già dichiarato «sold out» la loro produzione per tutto il 2022 e buona parte del 2023.

 

La notizia è stata data da Bloomberg alcuni giorni fa e, ironia della sorte, è piombata sul dibattito pubblico proprio mentre - tra il G20 romano e la Cop26 di Glasgow - si sottolineava la necessità di una transizione verso energie pulite per limitare il riscaldamento globale nei prossimi anni. Transizione che, tuttavia, si scontra con una realtà incancellabile: il costo eccessivo delle rinnovabili e del gas naturale. E così, alla vigilia di un anno che segnerà la ripresa a pieno regime dell’economia dopo il rallentamento dovuto alla pandemia, chi se lo può permettere fa scorta di carbone.

 

Bloomberg cita il caso della Peabody Energy Corporation, la più grande azienda carboniera del settore privato al mondo che si occupa dell’estrazione, della vendita e della distribuzione del combustibile usato per la produzione di elettricità e di acciaio. Ebbene, l’Ad del gigante del carbone, Jim Grech, giovedì scorso in una teleconferenza ha detto che la produzione prevista per il 2022 «è già praticamente esaurita», e ne rimane «solo una piccola parte per l’anno prossimo e per il 2023».

 

Discorso analogo per la Arch Resources, altro big statunitense del settore da quasi 4.000 impiegati e capitale complessivo di 666 milioni di dollari (dati del 2017). Il Ceo Paul Lang ha detto che la produzione del loro carbone termico per il 2022 «è già totalmente impegnata» mentre ne rimarrebbe solo una piccola quantità di tonnellate da esportazione da piazzare per la seconda metà dell’anno. Un successo che si trasferisce anche sui prezzi, saliti del 20% in una sola settimana (e quasi quadruplicati rispetto a un anno fa) e che ha consentito alla Arch Resources di ripristinare il dividendo agli azionisti bloccato nel 2020.

Infine Bloomberg cita un terzo grande produttore, la Alliance Resource Partners, che nell’anno in corso ha in programma di cedere 32 milioni di tonnellate di carbone ma ha già concluso accordi per 30 tonnellate nel 2022 e per 16 nel 2023.

Quanto questo sia in contrasto rispetto alle politiche ambientaliste propagandate nei vertici mondiali sta tutto nelle parole che il segretario generale dell’Onu Antonio Gutteres pronunciava appena due mesi fa: «Le ultime rilevazioni del Comitato intergovernativo sul cambiamento climatico confermano che il carbone va eliminato. Non si devono costruire più impianti dal 2021, quelli in funzione devono essere smantellati entro il 2030». Ebbene, la Cina - non a caso tra i Paesi più ritrosi a impegnarsi sul fronte delle rinnovabili - solo per questo 2021 ha annunciato la costruzione di ben 45 nuove centrali a carbone.

Da questo punto di vista si comprendono meglio le parole della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, che aveva spiegato come nei lunghi anni della transizione energetica che attendono il pianeta ci sia bisogno anche del tanto vituperato nucleare. Concetti che, peraltro, erano stati anticipati dal ministro italiano Roberto Cingolani, che per aver ipotizzato il ricorso all’atomo «di ultima generazione» era stato pesantemente contestato dagli ambientalisti e aveva dovuto affrontare un chiarimento politico con il leader dei Cinquestelle Giuseppe Conte. «Ambientalisti radical chic», si era sfogato Cingolani, intendendo proprio gli intransigenti che, per guardare il dito, non vedono la luna. Ovvero una montagna enorme di carbone, sempre più costoso e sempre più richiesto.

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