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L'abitudine alla libertà limitata è il vero rischio del green pass

Vittorio Emanuele Falsitta
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Le considerazioni rese qualche giorno fa dagli autorevolissimi filosofi Agamben e Cacciari per i Diari dell’Istituto di Filosofia, sul tema del green pass, appaiono dense di ragione. Affrettata – e di quella fretta che, a volte, spinge a sacrificare rigore e meditazione – sembra, invece, la sequela di repliche. Tutto ciò suscita due brevi riflessioni. La prima: la separazione tra le persone, l’allontanamento del prossimo, la caduta discriminatoria sociale (cittadini di serie A e di serie B), i suoi riflessi sulla percezione del senso di solidarietà, l’apertura a forme di dispotismo etc. credo rappresentino una serissima prospettiva d’osservazione degli effetti del green pass e, tuttavia, ancora troppo addominale. Interiore. Messa così, infatti, la riflessione dei filosofi ricordati tende ad esaurirsi in una veduta su interni. Non esce dal gioco della politica che c’è, ossia, una politica che non c’è, perché è già passata. Anzi, corre il rischio di restarvi catturata e poi (ingiustamente) sconfitta sul campo dall’efficienza tecnica delle decisioni del governo.

 

 

Una veduta sugli esterni del fenomeno, per contro, mostrerebbe la questione da nuove angolazioni e consentirebbe di dare un corpo (ma non di carne!) all’eventuale despota che si muove sulle quinte. L’adozione del green pass (che altro non è che elusione dell’obbligo giuridico, politicamente scomodo, di vaccinarsi) così come viene imposto, determina una silenziosa e pericolosa trasformazione della coscienza che si innesta nei comportamenti sociali a venire: un cambiamento, una induzione all’abitudine di accettare automaticamente repressioni della propria libertà e discriminazioni, delimitazione dell’agire, automutilazioni giuridiche quando di mezzo v’è la scienza; pre-dispone ad una accoglienza "naturale", "istintiva" della diversità che, secondo la scienza, va ricusata. Esercizio, verrebbe da dire, per un nuovo paradigma di civiltà. Più da vicino, si tratta di stati di vita psichica ben conosciuti dalla Tecnica, intesa come pensiero, e coessenziali al suo inarrestabile cammino di affermazione sull’uomo. Ciò che non funziona, dunque, non è la limitazione in sé e in quanto tale ma l’assenza di una amministrazione del pensiero tecnico che dispone quella limitazione; che sappia anticiparlo, e sia capace di interpretare i rischi della preordinazione sociale ad accettare automaticamente inibizioni in ragione della scienza.

 

 

La seconda riflessione: il green pass è un lungo dito ossuto puntato verso il vuoto: indica l’estensione di un’assenza. Quella su cui troneggia la politica. È spazio abbandonato, dissacrato da anni di inerzia del pensiero politico, ed è destinato ad essere riempito dalla Tecnica, al momento, unica autentica direttrice d’orchestra. Obiettivo del potentissimo pensiero è impossessarsi di tale spazio e da qui stabilire le condizioni per realizzare la propria idea di Giustizia, di Fisco, di Sanità e così via, attraverso una rettifica dell’uomo e le sue debolezze, all’insegna dell’efficienza e della razionalità e, soprattutto, con l’aiuto di una amministrazione politica che taccia quando parla la regola tecnica. Il green pass, a suo modo, dice anche questo.

 

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