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A volte tocca anche prendersi responsabilità (e fischi) altru

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Sì,perché quando Antonio Candreva si è alzato dalla panchina per disputare gli ultimi minuti di Lazio-Milan, tutti gli improperi che gli sono piovuti addosso dal pubblico dell'Olimpico erano solo in parte dovuti alla sua sbandierata fede romanista. In quel momento, il ragazzo di Tor de' Cenci è diventato il simbolo e il capro espiatorio dell'ultima frattura tra società e ambiente, quel mercato di gennaio che ha lasciato tutti delusi e perplessi. Di certo non sarà facile per un ragazzo non ancora 25enne sobbarcarsi tutta la pressione di uno stadio che, persino quando ti è amico, può metterti spavento. «Ma è una sfida che gli auguro di vincere, perché dal punto di vista professionale sarebbe una soddisfazioni enorme». A parlare è Fabio Liverani, uno che ci è passato. E che da romanista è entrato indelebilmente nel cuore dei tifosi biancocelesti. Cinque anni a Roma, dall'inferno al paradiso: «I primi due furono terribili, c'era grande ostilità ambientale - ricorda Liverani - poi a poco a poco le cose cambiarono. È stato soprattutto grazie all'impegno che mettevo in campo, e anche per un chiarimento con i tifosi. Capirono che prima dell'atleta c'era l'uomo, uno che dava sempre tutto se stesso per la maglia che indossava e che poteva contribuire in maniera positiva al bene della Lazio. Da allora le cose si trasformarono, e gli ultimi tre anni sono stati davvero eccezionali». Di quella squadra il «giallorosso» Liverani diventò persino capitano («una gioia incredibile») e condottiero in tanti derby: «In quel caso più che romanista è contato l'essere romano - racconta - perché vuol dire sapere cosa significa la partita per la città e triplicare l'impegno. Anche perché, mai come nel derby, gli occhi dei tifosi erano puntati su di me». «A Candreva l'Olimpico inizialmente non perdonerà nulla - conclude Liverani - sta a lui sfruttare ogni occasione e conquistarsi la stima dei tifosi». Come può farlo? «Beh, per iniziare con la sua classe immensa». A parlare stavolta è Andrea Bambina, l'allenatore che nel 2001 lo scoprì nei giovanissimi della Lodigiani e lo portò dopo 12 mesi a giocare negli allievi nazionali. Lui del 1987 in mezzo a tanti '86, più robusti fisicamente. «Fu un'ottima annata - ricorda Bambina - c'erano tanti ragazzi che avrebbero fatto strada, come Pacilli che ora gioca nell'Albinoleffe o Lazzari dell'Empoli. Nonostante questo Antonio divenne uno dei punti fermi. Era tecnicamente dotatissimo, corsa elegante, testa alta. L'ho utilizzato come seconda punta, trequartista, interno di centrocampo o mediano in un centrocampo a due. Ha le qualità per fare qualsiasi ruolo». Non basteranno solo quelle per affermarsi in biancoceleste, ci vorrà anche un carattere di ferro per tenere a bada le contestazioni: «Ma lui è forte anche psicologicamente - ribatte Bambina - non l'ho mai visto teso, neppure nelle partite più importanti. Per non parlare della serietà. Non ricordo un allenamento saltato o affrontato in maniera svogliata. Aveva una voglia enorme di giocare a calcio e nel suo sguardo vedo ancora quella convinzione e quell'umiltà». La carriera, poi, parla per lui. A soli 24 anni vanta già 86 presenze in massima serie e non ha saltato praticamente neanche una rappresentativa azzurra, dalla nazionale Under 18 a quella maggiore. In quella Olimpica, nel 2008, esordì proprio per l'infortunio del «fuoriquota» Tommaso Rocchi. Un po' di Lazio nel suo passato c'era già, ora ha sei mesi per dimostrare che si era trattato di un segno del destino.

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