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Un capitano tutto d'oro

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Conl'esultanza dei fortunati concittadini presenti allo stadio di Berlino, ma anche con l'applauso sincero dei tifosi tedeschi. La loro prediletta Germania di Klinsmann era stata sconfitta in semifinale dagli Azzurri: nella più bella, ed equllibrata, partita dell'intera manifestazione iridata. L'altra immagine della festa per la ricorrenza la offre Fabio Cannavaro, che di quel mondiale tedesco era stato l'autentico eroe fino a guadagnarsi, riconoscimento anomalo per un difensore, il Pallone d'Oro. Lo storico capitano, trentotto anni, chiude la sua esperienza di calciatore all'Ahli Al, si è arreso ai guai di una cartilagine del ginocchio, però la sua esperienza araba proseguirà con tre anni di contratto come dirigente. Cade in piedi, indubbiamente, come del resto merita la sua lunghissima carriera, le maglie più illustri d'Europa vestite e onorate, gli scudetti vinti, il record di presenze in azzurro. Perdonabile, per umana simpatia, qualche singolare caduta di stile, come quelle siringhe esibite nello spogliatoio del Parma, in un momento in cui l'impegno a combattere la piaga del doping avrebbe imposto atteggiamenti meno goliardici. Ma è giusto riconoscere che pochi giocatori possono vantare, e pochi in futuro ci riusciranno, un bilancio complessivo così lusinghiero, orecchie e musica non sono usurpate. Ma naturalmente, la ribalta di questa storica data va di diritto alla solennizzazione collettiva, quel gradino più alto del podio raggiunto dopo un cammino sofferto. Un vertice sul quale le prime fasi di quel mondiale e soprattutto l'avvicinamento alle semifinali avrebbero instillato il dubbio dell'usurpazione, cancellato dalla splendida prova contro la Germania padrona di casa e poi di quella tosta, in finale, ispirata allo spirito di capitan Cannavaro, appunto, ma anche di Ringhio Gattuso. Un ritorno al passato, in un certo senso, ma nobilitato dai gesti eleganti di fuoriclasse come Francesco Totti e Alex Del Piero. Di quell'avventura il capitano romanista non avrebbe dovuto essere partecipe, reduce da un pesantissimo infortunio con esigui margini di recupero. Felice intuizione, quella di Marcello Lippi, il sacrificio chiesto al numero uno del calcio nazionale: margini di impiego ragionevoli in rapporto alle disponibilità del momento. Parentesi che sarebbero risutate decisive, come quel rigore contro l'Australia all'ultimo secondo, un pallone pesante come un macigno sul dischetto, un'imposizione di fronte alla quale soltanto un fuoriclasse risponde con mente lucida, nervi controllati, piedi fatati. Dei quattro mondiali che illustrano l'albo d'oro dell'Italia, quello di Berlino non è stato forse il più esaltante, se si vogliono privilegiare gli aspetti spettacolari di una conquista. Però ha confermato la tendenza del nostro calcio a produrre il meglio di sé quando i pronostici sono rivolti ad altri nomi, dalle sudamericane storiche alla Germania che poteva godere dei tradizionali privilegi riservati a chi ospita la più importante competizione internazionale. Nella finale con i francesi, legge del contrappasso per i «bleus»: otto anni prima la traversa aveva tradito Gigi Di Biagio, spalancando ai rivali la strada verso il titolo mondiale, a Berlino la trasversale l'aveva colpita Trezeguet (quello del beffardo golden gol nel campionato europeo), nessun azzurro avrebbe tremato dagli undici metri. Per Lippi, automatica assoluzione da ogni peccato, come l'umorale ostracismo a Christian Panucci, il nostro miglior esterno di difesa. Lasciata e poi ripresa in corsa la Nazionale, Marcello avrebbe pagato un salatissimo debito di riconoscenza nei confronti degli eroi di Berlino, proprio come era accaduto a Bearzot in Messico dopo il trionfo spagnolo, anche se il «vecio» aveva l'attenuante di un'allarmante carenza di validi ricambi. Al mondiale sudafricano, il cittì ha portato con sé un numero eccessivo di giocatori bolliti e demotivati, inevitabile il naufragio, clamoroso come quelli del '66 in Inghilterra e del '74 in Germania. Nelle interviste celebrative di ieri, Marcello Lippi ha candidamente ammesso un suo personale errore di valutazione nelle convocazioni per il primo Mondiale africano della storia, amaro rimpianto per non avere chiamato Giuseppe Rossi. Per altro, il bomber del Villarreal non ha avuto alcuna necessità di asciugarsi le lacrime: restandosene a casa, ha evitato il coinvolgimento in un penoso tentativo di uscire dal guano.

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