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Lezione di umiltà all'opulenza dell'Inter di Moratti e Mourinho

Pechino, la Lazio conquista la Supercoppa italiana battendo Inter per 2 a 1

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Nel giorno dell'anniversario dell'ultima Olimpiade l'Aquila laziale vola alta nel cielo cinese e in mondovisione, rapace e maestosa, e poi si posa trionfante nel Nido, lo stadio simbolo della Pechino a cinque cerchi.  La Lazio ha appena dato una lezione di umiltà all'Inter e ha portato a Roma la Supercoppa, il primo trofeo «vero» della nuova stagione calcistica. La gente non ci crede, perché le avevano spiegato che l'Inter gliene avrebbe fatti cinque. E invece non si è trattato né di un furto né di un caso, come, poveracci, gli interisti e i romanisti adesso diranno in giro. Il punto è che, essendo l'Aquila biancoceleste perché nel 1900 i padri fondatori scelsero di darle i colori della bandiera della Grecia in omaggio agli ideali olimpici, è legittimo pensare che, visto il contesto pechinese, la vittoria ai danni della squadra-emblema dei falsi valori del calcio sia stata frutto, anche, di un atto di giustizia poetica compiuto dagli dei dello sport. Nel Nido, confuso fra i suoi giocatori, il presidente Lotito, l'uomo che ha sempre anteposto l'etica all'imperante mercificazione dello sport italiano più popolare, salta e canta come un adolescente in gita studentesca. Poco più in là, l'arrrogante «Special One», quel José Mourinho che a chiacchiere vince sempre ma in campo ci riesce molto meno, ha una volta tanto l'aria da cane bastonato. S'è sparato tutto il suo campionario di mercenari strapagati, 3-400 milioni di euro di fenomeni provenienti da mezzo mondo, ma sa già che ciò non gli basterà (anzi) a evitare la valanga di sfottò a base di «zero tituli» che i media gli riverseranno addosso nei prossimi giorni.   Il 2-1 che ha permesso alla Lazio di eguagliare il numero di titoli vinti dalla megagalattica Inter di Moratti nell'ultimo decennio e a Lotito di fare marameo ai dirimpettai giallorossi, fermi alla coppetta del 2008, ha infatti un peso morale che travalica quello del risultato, perché dimostra come nello sport niente sia già scritto in anticipo e che i soldi, gli amici potenti, le protezioni politiche, arbitrali e mediatiche ti danno, sì, un enorme vantaggio, ma che non bastano se, una volta in campo, ti trovi di fronte qualcuno che ci sta con la fede.   Chiaro che la riscoperta di tale verità non deve adesso diventare un alibi per non spendere i soldi necessari a migliorare la squadra. Voglio dire che questo secondo trionfo nell'arco di appena due mesi rischia di essere controproducente se Lotito si illuderà che lo spirito di gruppo e il rispetto dei valori di base dello sport basteranno a evitare che la Lazio disputi un campionato mediocre come quello 2008-2009. Ieri abbiamo visto quanti e quali difetti – a centrocampo e in difesa - abbia la rosa messa disposizione del nuovo mister Ballardini, fra le cui doti (accanto alla preparazione, al rigore e alla lucidità) ci sembra di poter finalmente illuderci ci sia qualcosa che alla Lazio ha storicamente fatto difetto: un po' di fortuna. Lotito ha il dovere di intervenire sul mercato per rimediare, senza cedere ai ricatti dei procuratori-magliari ma anche senza nascondersi dietro al paravento dei «due tituli». Quanto accaduto a Pechino concede al Presidente una momentanea immunità dal virus del pessimismo che untori dell'etere ed ex-cortigiani defenestrati tentano per interesse di diffondere.   Ma proprio per questo la SuperCoppa deve diventaree un punto di partenza per costruire con pazienza e assennatezza una grande Lazio attorno agli eroi dell'8 agosto 2009, a campioni come «Paratutto» Muslera, «Mister-ovunque» Matuzalem e Zarate Kid, che ieri Mourinho ha fatto pestare dal primo all'ultimo minuto senza che l'arbitro Morganti ritenesse di dover intervenire. Dopo aver speso quasi 30 milioni di euro per assicurarsi fenomeni del genere sarebbe un crimine arrivare di nuovo decimi o undicesimi, come ai tempi di Delio Rossià

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