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Era il 1955, quindicesima tappa, traguardo di Ravenna.

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Seitappe alla conclusione del Giro, e una maglia da difendere da una muta di avversari guidata da Coppi, Magni, Koblet, tutti sostenuti da squadre blindate e infastiditi che un giovane senza metodi e strategie, campione solitario e diverso, li tenesse a scacco. In una corsa spietata, in cui le alleanze contano spesso più dei valori individuali, Nencini mantenne il comando per quattro tappe. Nella penultima, Trento-San Pellegrino terme, recuperata agevolmente una caduta iniziale, il toscano reagì d'impulso ad un attacco improvviso portato da Magni e Coppi. Raramente la sfortuna fu più irriguardosa: tre forature, in successione, appiedarono il giovane di Bilancino. Il traguardo, con il suo raggelante cinismo, con Coppi alla sua ultima vittoria e Magni alla sua terza maglia rosa, fu impietoso. Scrisse, di quell'epilogo, Anna Maria Ortese, la grande scrittrice al seguito della corsa, camuffata da uomo perché l'epoca escludeva le donne dalla carovana: «Piegato, duro, infelice, coperto di sole e di lacrime». Quel giro, Nencini lo perse. Ma le oneste leggi della casualità gli restituirono il credito due anni dopo, con la maglia rosa Charly Gaul appartatosi per necessità fisiologiche ai bordi della strada e con Nencini infine vincitore. Tre anni ancora, e per il toscano, premiato da De Gaulle, sarebbe giunto il trionfo nel Tour, quarto italiano di sempre dopo Bottecchia, Bartali e Coppi.

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